Il film. ‘Tre amiche’, riflessione (non riuscita) sull’amore

10 Settembre 2025

“Tre amiche” sotto le stelle. La pellicola del 2024 era in proiezione sabato scorso all’Arena Giardino: sempre suggestivo il contesto, scarsa la partecipazione di pubblico. Il film, girato da Emmanuel Mouret, porta in scena con leggerezza le tortuosità dell’amore. Le amiche sono tre insegnanti: Alice di storia e geografia, Joan di inglese e Rebecca di arte, donne dalle fisicità e dai caratteri molto diversi ma molto legate: la prima (Camille Cottin) è felicemente sposata senza figli con un uomo che sa di non amare alla follia; la seconda (India Hair) è in crisi perché ha smesso di amare il servizievole padre di sua figlia; la terza (Sarà Forestier) è un’artista dalla vita sentimentale disinvolta e movimentata. Il loro modo diverso di intendere l’amore, non senza ripensamenti, tradimenti e mutevolezze, costituisce l’ossatura della storia.

Intorno alle tre donne ruotano altrettanti uomini, Victor, Thomas e Eric (Vincent Macaigne, Damien Bonnard, Grégoire Ludig) tutti impegnati a mettere in discussione continuamente la concezione dei sentimenti e dunque il senso della vita. Il narratore è il compagno di Joan, che presto esce dalle scene, per ricomparire come fantasma.

L’amore, fra dubbi, letture, interpretazioni e fantasie ne esce vivisezionato. Il finale è aperto. Una frase fa da sintesi: mettersi in gioco. Perché è certo: a stare fermi non succede nulla ed è solo confrontandosi e relazionandosi che di può crescere e, infine, scegliere.

Il regista è considerato una sorta di risposta francese a Woody Allen. Diciamo allora che Mourier (sceglie di avvalersi) si avvale di attori dimessi e sottotono. I dialoghi sono deboli, come pure la colonna sonora. L’umorismo non cattura, la fotografia è opaca, tutto è smunto e senza luce. Il regista descrive una middle class che dovrebbe incarnare l’intelligenza del Paese, eppure si perde in sofismi da liceale. La scuola descritta è irreale, troppo silenziosa, Lione diventa una cartolina appannata. Curioso che nel tempo libero vadano al cinema a vedere vecchie pellicole in bianco e nero, capolavori dimenticati, artificiosa citazione del cinema nel cinema. Si fotografano fra di loro con macchine obsolete, in uno spaccato sospeso nel tempo e decontestualizzato: potrebbero essere ovunque. Non c’è glamour. Non si incarnano sogni. Non c’è poesia. Nonostante le differenti interpretazioni dell’amicizia, della vita e dell’amore, il racconto non condivide nulla della raffinatezza di Allen.

L’emozione che accompagna i titoli di coda è la tristezza e in testa un assillo: e se lo stesso canovaccio l’avesse svolto davvero un regista americano? Con attori affascinanti, dialoghi intriganti e sofisticati, una fotografia seppiata e qualche guizzo di genio?

I nostri gusti sono drogati dal cinema di Hollywood, eppure sarebbe bastato poco per rendere affascinante una riflessione sull’amore che sapesse restituire un’elegante bellezza e non una torbida malinconia.

Francesca Codazzi

Una risposta

  1. Hai ragione su tutto, io il collegamento con woody allen l’ho intravisto forse per un attimo all’inizio della pellicola. Forse ci ho visto un po’ di più la somiglianza con Rohmer (gli interminabili dialoghi e monologhi sul senso della vita e delle cose sono in Rohmer forse più profondi ma forse anche più teorici) È, in
    effetti, un film che sembra voler dare l’idea di un luogo e di personaggi senza tempo, come
    del resto senza tempo sono l’analisi e la ricerca del significato del concetto di amore.

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