Possiamo parlare ancora oggi di un “progresso verso il meglio”? È possibile un agire razionale che non sia solo strumentale e tecnocratico, ma capace di accogliere la coscienza ecologica ed etica? È possibile umanizzare la modernità? Le crisi globali mettono in discussione il futuro dell’umanità. Pandemie, catastrofi climatiche, guerra, crisi energetica ci rivelano che viviamo in un mondo interdipendente. Se avremo un futuro, sarà un futuro planetario. Preparare questo futuro chiede un radicale cambiamento di paradigma, che prenda congedo dal canone della semplificazione e muova verso un pensiero delle connessioni e delle relazioni, verso un pensiero della complessità, l’unico adeguato ad abitare un mondo in cui tutto è connesso. Senza questo mutamento, continueremo a entrare nel nuovo secolo indietreggiando e tarderemo a divenire ciò che siamo: una comunità di destino planetaria.
E’ questo il tema e il filo conduttore del nuovo libro Umanizzare la modernità scritto da Mauro Ceruti con Filippo Bellusci. Ceruti, cremonese di nascita – conserva la casa di famiglia a Cicognolo – è professore ordinario e prorettore vicario all’Università Iulm di Milano dove è stato prorettore alla Transdisciplinarità e direttore della Phd School for Communication Studies. È stato ricercatore presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Ginevra e presso il CNRS a Parigi. È stato preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Milano-Bicocca e preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bergamo e senatore della Repubblica nella XVI Legislatura. I suoi libri sono tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, rumeno, turco.
”Mauro Ceruti e Francesco Bellusci – scrive Gaspare Polizzi sul Sole 24 Ore – tornano a proporre, dopo il fortunato Abitare la complessità (2020), un ostinato richiamo ai valori dell’umanesimo e dell’illuminismo in un tempo che sembra aver smarrito la cognizione dell’umano e di ogni forma di ragionevolezza, e non solo di quella razionalità «chiusa, formale, geometrica, rigorosa, universalizzante e decontestualizzata, destoricizzata» inaugurata nella modernità da Cartesio. Dinanzi a un’umanità che vive la perdita del futuro, gli autori intendono procedere oltre le «dispute tra catastrofisti e neofuturisti, tra tecnofili e tecnofobi, tra demolitori dell’autorità della scienza e apologeti della tecnocrazia, tra ecologisti radicali e transumanisti», facendo tesoro dell’inesauribile testimonianza di Edgar Morin, che, nella fascetta che accompagna il libro, dichiara che lo avrebbe voluto scrivere lui. Per dar corpo a una rinnovata speranza di futuro gli autori dialogano con alcuni tra i pensatori che meglio hanno ottemperato all’invito hegeliano di apprendere il proprio tempo con il pensiero. Da Isabelle Stengers a Fritjof Capra, da Bruno Latour a Philippe Descola, da Giacomo Marramao ad Alain Touraine, da Remo Bodei a Vito Mancuso, da Peter Sloterdijk a Tzvetan Todorov, da Jean-Luc Nancy a Stephen Toulmin, Elena Pulcini, Hartmut Rosa, Michel Foucault, Ulrich Beck, María Zambrano, Ernesto Balducci, e si potrebbe continuare con alcune figure portanti del pensiero novecentesco quali Ernst Bloch e Hans Jonas, Maurice Merleau-Ponty ed Henri Bergson. Ma più che per il fitto dialogo con gli interpreti del nostro inquieto disorientamento, il libro è pregevole per l’articolazione della proposta di un umanesimo planetario, formulata per la prima volta da Morin: «si tratta, quindi, di vedere l’umano quale complexus di intelligenza ed erranza, di calcoli e affetti, di potenza e fragilità, di precisione e leggerezza, di adattabilità e disadattamento».
«Lo sguardo ‘inquieto e complesso’ che ispira la ricognizione degli autori sulle crisi del nostro tempo – scrive Polizzi – è
più affine a quello di Pascal che non a quello di Spinoza, perché si attaglia al divenire umano in una società-mondo, colto all’«inizio della consapevolezza di una nuova era geologica, l’Antropocene, e all’inizio di una fase nuova e “critica” della modernità. Una fase nuova che non ne smentisce del tutto la tradizione, ma che raccoglie la sfida di conciliare la «prima
modernità» dell’umanesimo e la «seconda modernità» della scienza moderna, sulla scia della riflessione del filosofo e storico della scienza Stephen Toulmin in Cosmopolis».