Non sono femminista. Non lo sono per motivi anagrafici. Non lo sono mai stata. Anzi fruisco dei benefici delle battaglie fatte dalle donne per le donne, negli ultimi 80 anni. Sono loro grata. Amo le donne. Ho lavorato bene con loro. Ho un sacco di amiche bellissime. Non sento invidia, ma voglia di scambiare, unire gli sforzi, integrarsi. Mia mamma mi ha insegnato ad amare le donne. Lei donava loro bellezza, interpretava la loro personalità, sapeva valorizzarla, calando su di loro più di un vestito: uno sguardo d’amore, che è lo stesso sguardo di sicurezza che sentiva su di lei. Era lo sguardo di mio padre. Si sono amati per 70 anni. Lei si sentiva protetta. Nella mia esperienza c’è solo amore. Capite dunque che prendo con le pinze ogni parola. Oggi il lessico è tutto orientato verso il concetto di “società patriarcale”. Non l’ho vissuta. Per me è una lingua sconosciuta. Mio padre ha coperto mia mamma di attenzioni fino all’ultimo respiro. La mia è stata una vita bella, ma a volte il mondo non lo è.
Il catcalling. Ero incinta, dunque un po’ formosetta. Sono entrata in una nota società sportiva e sono passata davanti ai tavolini del burraco assiepato di ultrasessantacinquenni, che mi hanno apostrofato a voce alta, enfatizzando i miei attributi, soprattutto il seno. Ero a disagio per un fisico fuori controllo, quelle parole non mi hanno fatto piacere. Il catcalling non si fa.
Ho poi provato la spiacevole situazione in cui non ti fanno parlare. Ti interrompono, coprono la tua voce, affermano da maschi una superiorità invadente. Non si fa.
Ho poi vissuto il pregiudizio di “sei molto carina” sul luogo di lavoro. Ho ricevuto un sms con quelle tre orrende parole dopo un colloquio. Dire a una donna “sei molto carina” sul luogo di lavoro può offendere specie se la donna si impegna per un giudizio che va ben oltre l’aspetto estetico. Non si fa.
Ha ragione allora Elena la sorella di Giulia Cecchettin: Filippo è figlio della società dello stupro? Di una società patriarcale? Il tema è caldo. Si è scaricata un’ondata di emotività fortissima e comprensibilissima intorno a questa vicenda drammatica. Perché? Perché è un “delitto perbene”, nasce nel ricco e colto nord est, non in un contesto di degrado. Ma, l’incontro fra persone culturalmente divaricate può essere devastante. Filippo Turetta era geloso per i successi universitari di Giulia. Non voleva si laureasse prima di lui. Ne stava perdendo il controllo. Il movente poteva funzionare anche fra due donne. Ma una donna, percependosi come rivale, non credo avrebbe ucciso, né fatto un viaggio picaresco, pochi soldi e benzina fra il Veneto, l’Austria e la Germania. Le donne sono più contorte. Me lo spiegava una volta un’investigatrice privata: seguire le donne fedifraghe è un’impresa, fanno mille strade. Il maschio è basico, lo becchi subito.
Di fatto Giulia non c’è più e il dolore è immane. Un femminicidio ogni tre giorni di media. Questo ha toccato il cuore di tutti, perché Giulia è una ragazza dolce, sana: l’eccellenza del nostro Paese. Provo immensa stima per il padre di Giulia, per la dignità con cui sta portando avanti il suo dramma. Lui sta già allargando gli orizzonti verso un impegno sociale che spinga a non ripetere questo dolore. Mi auguro che crei una Fondazione, la chiami Giulia Cecchettin e detti linee innovative per uscire da questa emergenza. C’è un rimpallo di responsabilità. Non escono idee nuove.
Si parla ad esempio di proiettare il magnifico film “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi nelle scuole. Anche alle medie. In prima e seconda non lo capirebbero, in terza media a fine anno, dopo aver svolto tutto il programma di storia forse sì. Il film è uno strumento utile per descrivere la società patriarcale e come viveva una donna, vittima di un marito/padrone, nell’immediato dopo guerra. Alla soglia del voto, alla soglia dell’emancipazione. Solleva temi che dovrebbero essere superati come la disparità di salario fra uomo e donna, il tema del possesso, come se la donna fosse un oggetto nelle mani di un uomo e come tale non possa esprimere la propria personalità, con un rossetto, un vestito, un caffè con un’amica. Solleva infine il tema dell’istruzione, per affrancare la donna da lavori umilianti e renderla libera da relazioni tossiche.
Per restare a scuola, il governo si interroga e rispolvera una vecchia idea di proporre, sin dalla materna, l’ora di affettività, che diventi alle superiori ora di sessualità. Contestualmente si parla dello psicologo fisso nelle scuole. Va bene lo psicologo. Per me gli psicologi dovrebbero essere anche all’angolo della strada, ma vorrei addentrarmi un attimo nella questione. Anzitutto, la scuola che è diventata parcheggio e refugium peccatorum di tutti i mali del mondo, si deve accollare anche questo. Si sta spostando tutto sulla scuola. Non va bene. Cos’è l’affettività? Sono emozioni. Siccome fanno paura le spostiamo sulla scuola. Cos’è un’emozione? E’ la complicità che si crea quando leggi un libro nel lettino in cameretta con tuo figlio, è un votaccio preso in storia perché non sai chi è Federico Barbarossa, è il fallimento di una performance di canottaggio, è il bacio prima della buonanotte, è il bigliettino che ti arriva dalla compagna di banco con su scritto: ci fidanziamo? Sì o no? Tutto è affettività.
Per la cronaca, nei Paesi dove è già attiva da tempo l’ora di sessualità nelle scuole i femminicidi non sono diminuiti.
Ci sono genitori che non sanno accettare le difficoltà dei figli. Il brutto voto o un fallimento sportivo scatenano rappresaglie contro i professori o l’allenatore. Ci sono genitori che non sanno dire “no”. Premiano con regali importanti un bel voto. Ma perché? Un bel voto è una gratificazione in sé, per aver studiato. Nulla più.
Noi stiamo diventando vittime di una società che vuole azzerare le emozioni e i sentimenti. Perché abbiamo paura di soffrire, di commuoverci, di piangere, di amare. Invece vanno vissuti e incanalati, a casa, a scuola, a danza, nello sport, all’oratorio, al parchetto, nella musica, in vacanza, ovunque. Se i bambini non imparano ad accettare le emozioni vivranno per sempre nella paura, la paura genera panico e il panico genera follia.
Filippo Turetta ha messo in pista un gesto folle, che ha sicuramente premeditato. Non giri con due coltelli da cucina in macchina. Il nastro adesivo. I kit di sopravvivenza. 300 euro in contanti.
Le derive forcaiole non vanno bene. I processi in piazza neppure. Non resta che affidarci alla giustizia e che paghi equamente per la sua colpa. Ma attenzione! Non è punirne uno per educarne cento, neppure sbattere il mostro in prima pagina: è stabilire con certezza chi è il carnefice. E’ indicare al bambino che si sta osservando l’emozione negativa, che come un bruscolino nell’occhio ci infastidisce e non vogliamo accettare. Il bravo ragazzo che cucinava i biscotti per Giulia ad un certo punto ha perso il controllo. Non credo sia vittima di una società patriarcale, bensì di una lotta di potere tutta chiusa nel conflitto uomo/donna, una relazione spesso difficile che ha origine con l’emancipazione femminile. Poi, le emozioni non gestite, quelle che la società ci sta insegnando a nascondere sotto il tappeto, perché fanno male, prima o poi vengono a galla. Come frustrazioni irrisolte. Filippo non ha accettato il “no” di Giulia e una società che premia i selfie, l’apparenza, i filtri, il successo apparente, quanto effimero non lo ha di certo aiutato.
Quando sento di delitti efferati come questo, penso sempre di poter riavvolgere il nastro a qualche istante prima, qualche ora prima, qualche giorno prima. Penso che se l’omicida come in una porta girevole fosse tornato indietro, avesse incontrato un amico, uno psicologo, un padre, un prete e si fosse sfogato, forse le cose sarebbero andate in un altro modo.
Il senato ha votato all’unanimità un ddl sulla violenza di genere in un’aula semivuota. Braccialetti elettronici, maggiore tutela per chi denuncia, tempi più rapidi. Cosa chiedere? Sono parecchi i versanti in cui ci sentiamo fragili, scoperte, indifese. Anzitutto la certezza della pena. Deve essere garantita una punizione adeguata all’offesa. Deve inoltre essere garantita una protezione alle donne che hanno il coraggio di denunciare. Purtroppo leggiamo di tutto: uomini che fanno qualche anno in prigione poi vengono rilasciati: l’ultimo il caso assurdo del femminicida diventato troppo grasso per poter restare in cella. Il clima è precario, non rassicura, aggiunge incertezza a incertezza. Ci sono donne che vivono in casa con l’aguzzino che hanno denunciato, perché non sanno dove andare. Ci sono donne barbaramente sfregiate dall’acido dal loro persecutore seriale uscito dopo sei anni per buona condotta. Donne chiuse in una gabbia di dolore, dalla quale è difficile uscire. La cronaca quotidianamente offre una casistica disperante.
La giornata del 25 novembre contro la violenza sulle donne quest’anno è particolarmente spinosa. Nel ringraziare i Centri antiviolenza, mi unisco al “presidio rumoroso” svolto ieri, 24 novembre, in piazza Roma, che ha uno slogan efficace: “Se domani tocca a me voglio essere l’ultima”.
Non abbassiamo la guardia.
Francesca Codazzi
11 risposte
Tema estremamente spinoso ma qui svolto in modo impeccabile che richiama a molte riflessioni. Condivido ogni virgola di questo bel pezzo. Ho qualche dubbio sul tema legato alla società patriarcale e al benessere economico del nostro nord est. Certo, non possiamo mettere in gattabuia nè la società patriarcale, nè le favorevoli condizioni economiche del Veneto che sarebbero un facile viatico per eludere alle vere responsabilità e alla certezza della pena. In questi giorni sono andato a rivedere il delitto Sutter avvenuto nel 1971, forse il primo vero femminicidio con all’epoca grande richiamo mediatico. Bene, da quel dì nulla sembra essere cambiato, tranne il giornalismo che fa il solito scoop, trito e ritrito. Brava Francesca.
Quanti temi affrontati! Ognuno andrebbe approfondito singolarmente. Quello che mi appassiona maggiormente riguarda la difficoltà, per non dire l’incapacità, di accettare le sconfitte e di sapere esprimere le proprie emozioni. Psicologi a ogni angolo, ma ai miei tempi si parlava in casa con i genitori delle proprie emozioni. Ora ci vuole un professionista: per pudore? Per paura di essere giudicati? Per mancanza di fiducia? Perché con i genitori non c’è un rapporto che fin dall’inizio pone le basi per farlo?
Sottoscrivo ogni parola, grazie per questa analisi chiara e calzante
Davvero un bell’articolo, ma soprattutto una riflessione non aggressiva ed efficace per il linguaggio attento al delicato argomento ma chiaro e schietto, colmo di quella sensibilità tutta femminile che comprende e non offende ma chiede coerenza e una giustizia giusta ed una educazione nel seno della famiglia che non può e non deve delegare ad altri il proprio diritto e dovere.
La mia Cecca… sempre fantastica! Hai scritto cose meravigliose con cui concordo pienamente.
Le differenze tra donne e uomini ci sono com’è naturale che sia. Differenza però non significa superiorità o inferiorità. Tutti, donne e uomini, dovrebbero prendere questa tragedia che ha coinvolto Giulia per mano di Filippo ( che è un pazzo che però in quanto tale non deve assolutamente avere sconti di alcun genere) come pretesto per riflettere e fare un esame di coscienza. Riflettere sui propri comportamenti e atteggiamenti all’interno della coppia, ma in generale anche della comunità.
L’argomento che oggi scuote tutti quanti sull’onda emotiva dell’omicidio di Giulia sia attuale sempre, non solo il 25 novembre. L’8 marzo, festa della donna, è una data che viene ricordata solo in quel giorno, come gli avvenimenti quotidiani dimostrano. Ci si mette l’animo in pace e poi si va avanti. Se non ci si fosse dimenticati da anni dei problemi di questo genere,non si discuterebbe solo ora di fronte a un cadavere su quello che bisogna fare. Si sarebbe sempre in movimento per cercare di procedere, non saremmo ancora fermi a parlare.
Parole molto belle, costruttive, che stimolano ad un futuro roseo… ma siamo alle solite ….. in Italia sopratutto ci vogliono fatti e meno parole Certezza della pena in primis per chi commette questi disgustosi efferati delitti poi ne parliamo.
C’è una morte data e una morte subita. C’è morte e morte. C’è una morte silenziosa, che non fa rumore, che non riempie le piazze. C’è una morte nella solitudine, nell’indifferenza, frutto dell’egoismo, del menefreghismo, di una sadica vendetta che non guarda in faccia a niente e a nessuno. C’è una morte figlia di un’ostinata superbia e tracotanza, alimentata da un’ideologica ignoranza. C’è una morte che ha tanti carnefici ma rispetto alla quale quasi sempre solo gli innocenti pagheranno. Se c’è un Dio, provvederà Lui un domani a render giustizia, altrimenti su questa terra non c’è speranza.
Senso di incertezza e abbandono delle istituzioni. Questo è il vero cardine su cui agire. Iniziare a ricostituire il “libro“ delle leggi dimenticare, modificate ad uso personale, depenalizzanti.
Sono convinto pienamente che col ripristino della giusta giustizia si sarà almeno fatto un passo in qualche direzione.
Brava Francesca
Cara Francesca, sottoscrivo ogni tua parola. Ogni giorno si legge una notizia del genere sul giornale… è terribile.
Questa tua frase secondo me racchiude molto: “… una lotta di potere tutta chiusa nel conflitto uomo/donna, una relazione spesso difficile che ha origine con l’emancipazione femminile.”
Invidia, invidia è la parola chiave… forse più ancora di gelosia di possesso….