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Il processo ai Chigago7, il mito Usa si infrange in Vietnam

19 Aprile 2021

Il cinema americano prosegue con la rievocazione storico – critica di pagine di cronaca attuale, quella più inquietante e discussa in cui il mito americano subisce una revisione impietosa. Il momento centrale di questa crisi (anche per il cinema) è dato dalla guerra del Viet – Nam; e forse per questo il regista de Il processo ai Chigao 7, Aaron Sorkin, ha scelto di rievocare l’episodio della adunata di protesta riunitasi a Chigago e organizzata da militanti radicali proprio per denunciare la ‘sporca guerra’. Il grande raduno sfuggì al controllo degli organizzatori, anche a causa delle provocazioni della polizia: ne nacquero tafferugli che provocarono morti e feriti.            L’avvenimento fornì all’amministrazione Nixon, appena insediata, l’occasione per mettere sotto accusa tutti i movimenti alternativi che contestavano la guerra, dalle Pantere Mere agli Scout.                          Il processo, che indignò molti per la sua parzialità e per la sua smaccata volontà punitiva, dimostrò anche il disprezzo per le libertà civili dimostrato da poliziotti e F.B.I.: l’impiego di infiltrati e di intercettazioni illegali, l’intimidazione dei giurati, le violenze gratuite e le provocazioni ai danni dei manifestanti.                                              Il processo ai Chigago 7  (distribuito dalla piattaforma Netflix) si presenta come un documentario. Per certi aspetti: rifiuta in modo ostentato l’enfasi e le scene madri, alterna alle sequenze di fiction inserti in bianco e nero, che provengono da materiale di repertorio. Le sequenze sono statiche, solo a tratti animate dalle performances di alcuni attori. Tuttavia, paradossalmente, si tratta di un film adrenalinico, carico di tensione, dovuta in massima parte ad una sceneggiatura ben concepita, che alterna tensione e quiete, e ad un montaggio rapidissimo, quasi frammentario, che imprime ritmo e polarizza l’attenzione.                                                                                    Il film si risolve dunque nell’ennesima denuncia di una pagina non memorabile di storia americana recente, a cui ancora una volta il cinema offre rilievo e un’occasione di riflessione, all’interno di un momento culturale in cui gli States appaiono davvero smarriti ed incapaci di risolvere le loro contraddizioni. Il comportamento dell’apparato repressivo e giudiziario non merita giustificazione; e tuttavia, proprio per evitare un manicheismo che finirebbe per riuscire controproducente, anche i contestatori mostrano divisioni e contraddizioni, il velleitarismo di qualcuno, l’ingenuità e la fragilità programmatica di altri.                                                                                Se sulla parte polemica del film, insomma, non sussistono dubbi, non convincono del tutto neppure le argomentazioni dei radicali, a cui si può imputare forse l’iniziativa di una manifestazione che non si riesce a regolamentare e a controllare. Tuttavia, da parte dei contestatori (a cui in definitiva va la simpatia del regista) sta l’elenco dei morti inutili di una guerra odiosa, che uno degli accusati legge in pubblico, invece di accettare i compromessi di un giudice indegno: uno dei momenti più alti del film.

 

 

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