Capita a tutti, specie dopo una prolungata assenza. Non appena arrivi in prossimità di Cremona cominci a fissare l’orizzonte cercando quella certa linea verticale che via via si fa più netta, prende volume e forma, finché ne hai certezza: è il Torrazzo. Cremona ha un suo modo unico e affettuoso di accogliere chi torna e di presentarsi a chi la visita per la prima volta. E tuttavia negli ultimi giorni al consueto piacere del ritorno qualcosa di nuovo s’è aggiunto. Che nome dargli? Speranza. La percezione, indotta da ragionevoli indizi, che la città potrebbe avviarsi a un doppio risveglio. L’uno è ovviamente il progressivo ritorno alla normalità dopo i mesi consumati nell’immobile silenzio della paura e dello sconforto. Ma c’è dell’altro: mai come negli ultimi tempi è apparsa reale e palpabile la voglia di riprendersi cura della città, del suo centro storico e di interrogarsi in modo concreto e non sterilmente nostalgico su come sfruttarne le potenzialità che, nonostante le occasioni perdute, tuttora attendono operatori adeguatamente coraggiosi. Il confronto sui destini della città, entrata nel tunnel del covid in condizioni di già grave deperimento economico sociale, riparte. Un passo decisivo su questa strada l’ha mosso proprio Giovanni Arvedi annunciando il proposito della Fondazione Arvedi-Buschini di promuovere il trasferimento della sede del Politecnico dalla punitiva collocazione periferica di via Milano alla caserma Manfredini. Ottima mossa per le ricadute economiche sulla città. Il polo scientifico tecnologico si troverebbe così a un passo dal polo umanistico insediato in Santa Monica e non per caso ma col dichiarato intento di attivare un costruttivo dialogo interdisciplinare. Come affiliata alla disciplina storica ho sperimentato sulla mia pelle come la presunta separatezza fra sapere scientifico e umanistico sia un pericoloso equivoco che ha spaccato l’unicità della conoscenza, anemizzando e depotenziando vista e udito sia di scienziati che di umanisti. Nelle tremende sfide implicate dalla progettazione di uno sviluppo sostenibile e dalla necessità di trovare un nuovo equilibrio fra comportamenti umani e residue risorse del territorio, una ben studiata sinergia fra discipline scientifiche e umanistiche potrebbe col tempo candidare Cremona a ‘pensatoio’ d’eccellenza. Scontiamo, in materia, un certo snobismo culturale che, influenzato dall’idealismo, decretò una presunta superiorità e autosufficienza delle discipline umanistiche in quanto interessate a conoscere gli aspetti qualitativi, unici e irripetibili dei fenomeni. E dunque a occupare il piano nobile dell’albero disciplinare. Allo storico o al filosofo, si diceva, non interessa la conta dei pomodori. Madornale errore che fu in seguito corretto da significativi ripensamenti. Ormai anche allo storico interessano, eccome, gli aspetti quantitativi dei fenomeni e i numeri, le serie statistiche e così via. E ci fu persino chi, schiaffeggiando a scopo provocatorio la centralità del fattore umano nella ricostruzione dei fatti storici, decretò che i ripugnanti e insignificanti ratti ebbero per le gigantesche conseguenze delle pandemie innescate maggior peso sulla vicenda storica globale rispetto al consueto protagonismo attribuito al fattore uomo. Irricevibili eccessi non privi, tuttavia, di provocatoria efficacia. E che dire del prezioso ruolo delle discipline filosofiche nella formazione delle teste orientate all’ambito scientifico tecnologico?
Ma il proposito di ricostruzione di una cittadella universitaria nel cuore della città storica suggerisce molto di più. Per esempio, che le grandi strutture ridotte a scatoloni vuoti, preda di indecoroso degrado, devono venire recuperate e destinate a nuova vita in una logica di conservazione e riutilizzo dell’esistente piuttosto che di proliferazione periferica di nuovi insediamenti. Purtroppo Cremona, quanto a consumo del suolo e invasività della cementificazione, è tutt’altro che un modello di virtù. Il centro storico pur con felici eccezioni -da Palazzo Raimondi a palazzo Trecchi- ha subito decenni di scelte penalizzanti orientate a logiche centrifughe: portare tutto nelle cinture periferiche, le università, i centri commerciali, gli insediamenti abitativi per giovani famiglie e così via. Trapiantare altrove la vita irragionevolmente confidando che la città antica non ne avrebbe risentito è stata scelta che nessun bisogno amministrativo di far cassa facile può giustificare. Gli enormi passivi li abbiamo visti: lo scempio del paesaggio rurale massacrato dai mega volumi dei centri commerciali, lo spolpamento della vitalità commerciale cittadina con conseguente spegnimento di tradizionali forme di socialità, la forzata modifica di comportamenti collettivi. Finalmente s’alzano voci di inversione di tendenza: non portare fuori ma riportare ‘dentro’, in una logica centripeta rispetto al nucleo storico. Una parola fa al caso: ravvedimento operoso. Meglio tardi che mai. E noi restiamo in fiduciosa attesa.
Ada Ferrari
Una risposta
Sperando che il “ravvedimento operoso” diventi “ certezza operosa “ questo sopratutto grazie a Giovanni Arvedi lungimirante e concreto “uomo non solo d’affari” ma di smisurato amore per la sua città che tanto ha fatto e dato per Cremona come nessun altro in tutti i campi: lavoro, arte, sport, cultura, restauro….ora guardiamo fiduciosi alla
Politica….ma la vedo dura.