È il 2 aprile del 1985.
Barbara, ferma sulla soglia di casa, indecisa, si guarda attorno. Servirà la giacca? Da un giorno all’altro la primavera ha riempito l’aria di profumi e attorno a lei avverte uno strano fermento: il glicine e il gelsomino iniziano la fioritura; le farfalle svolazzano curiose e, più in alto, i gabbiani si rincorrono con strida che sanno di festa. Il sole è già alto e il maestrale ha spazzato le nubi del giorno prima. Rinuncia al soprabito.
«Salvo, Giuseppe, andiamo!».
I gemelli non l’ascoltano: il pallone dimenticato la sera prima sull’erba è una calamita: Salvo gli dà un calcio, il fratello lo rincorre, si spintonano, lo inseguono, lo raggiungono, se lo contendono. Giuseppe lo scaglia sulla siepe di alloro. Ma Barbara non si arrabbia. «Su, è tardi». Il tono è accondiscendente. Come dire: ma sì, prendiamocela comoda, è una così bella giornata. Margherita esce di casa correndo. Le passa accanto; torna indietro e la bacia, distratta, ma col sorriso sulle labbra. È felice: va a scuola con una compagna. Barbara le sorride. Non mancherà molto e vorrà uscire con gli amici, andare in discoteca… ma è sempre “la sua bambina”. Come dovrà comportarsi? Fruga nella borsa, in cerca delle chiavi. Sarebbe bello poter passeggiare senza fretta sul lungomare, raggiungere gli scogli, carezzare l’acqua trasparente. Salire a Erice e aspettare il tramonto sulle Egadi, lei e suo marito, da soli come due sposini. Pensare al futuro, fare progetti per l’estate. Sì, l’avrebbe fatto. Dopo aver lasciato Salvo e Giuseppe; dopo aver comprato il pesce al mercato. Osserva i suoi figli: grembiulino nero e fiocco azzurro. Sono belli, monelli e affettuosi. Anche Margherita è una brava ragazza, studiosa. Non poteva desiderare di meglio dalla vita.
Guarda l’orologio. «Basta, adesso!». Il suo tono riporta all’obbedienza. I gemelli abbandonano il pallone e – una pacca sul culetto – si affrettano a salire in macchina.
Carlo è quasi pronto. Dai vetri socchiusi della finestra entra un piacevole spiffero che odora di mare. Ha voglia di togliere la giacca, allentare la cravatta, rimboccare le maniche della camicia. Scosta la tenda e guarda in basso, sulla strada: i suoi uomini si affaccendano attorno alle vetture tirate a lucido. Hanno già gli aloni di sudore sotto le ascelle e non sono ancora le otto del mattino; la salsedine li costringe a lavarle ogni giorno e la pulizia del parabrezza è un rito che precede ogni sua uscita. Carlo rivolge uno sguardo alla linea dell’orizzonte che separa l’azzurro chiaro da un intenso blu cobalto. La distesa del mare è rotta appena da qualche ricciolo di schiuma. Dieci chilometri lo separano dal Palazzo di Giustizia. All’inizio la superficialità dei superiori lo aveva infastidito: non gli avevano procurato un alloggio in città. Dimenticanza? Era stato ospitato presso la base militare, giusto il tempo necessario per trovare una sistemazione migliore, poi aveva affittato una
casa a Bonagìa, piccolo borgo di pescatori, così vicino al mare da avvertire, la notte, le onde infrangersi sugli scogli, a cullargli il sonno. L’agente Ruggirello guarda in direzione della finestra e solleva le sopracciglia: «Signor giudice, noi siamo pronti». Non gli dispiace farsi condurre lungo quel tratto di strada tranquillo. La costa frastagliata e le sagome delle isole Egadi in lontananza, manifeste o nascoste, curva dopo curva, lo accompagnano nel tragitto. Tutto odora di mare, anche le persone. Era stata la sua prima impressione. L’aveva scelta lui, quella destinazione, per continuare il lavoro avviato dal suo amico Gian Giacomo. «Chi te lo fa fare» gli avevano detto. Ma aveva voluto così.
Per Barbara uscire dalla traversa e imboccare la statale è sempre un’impresa. Nessuno rallenta. Tutti sembrano avere fretta. Nelle orecchie le parole del marito: «Quella curva è disgraziata. Sbucano d’improvviso e ti prendono in pieno». Lei è accorta, ma oggi rischia di fare tardi. Avanza di qualche centimetro oltre la linea dello stop, mezza cancellata dalla recente copertura di una buca. Una, due, tre macchine si spostano sulla carreggiata opposta per schivarla. Una Fiat Argenta rallenta; l’uomo alla guida le fa cenno con la mano di passare. Che gentile, pensa Barbara. Dio lo benedica.
«Trapani è la città più ventosa d’Italia, per questo non piove mai». I finestrini della blindata devono restare chiusi. Carlo prega l’autista di accendere l’aria condizionata. Rosario ha una guida prudente e scorrevole, senza accelerazioni o brusche frenate. Nella vettura che segue – una Fiat Ritmo bianca, anonima – gli uomini della scorta, vigili dietro gli occhiali scuri, guardano a destra e a manca. La Fiat Argenta ha appena dato la precedenza ad una Volkswagen. Due bambini, dal lunotto posteriore, fanno le smorfie all’autista. Sono uguali, tutti e due col colletto bianco e un fiocco celeste. Beata gioventù, pensa Carlo Palermo. Lui usava la bicicletta e procedeva zigzagando, sbilanciato dalla cartella sempre troppo pesante.
I gemelli non vogliono star fermi. Barbara è costretta a rimproverarli, alza la voce. «Niente merenda!» minaccia, se non smettono di saltare come pulci. La distraggono, e non va bene. Glielo dice sempre suo marito: «Sta’ attenta: è un attimo…».
Carlo apre la ventiquattrore, estrae dei fogli protocollo scritti a macchina. Legge: «… la grande criminalità è un fenomeno globale e complesso…». Prende la penna dal taschino, corregge un refuso. Chiude gli occhi, solleva il mento e abbandona il capo all’indietro, sullo schienale: non ha voglia di applicarsi, non adesso, non ancora. La battaglia è impari. Le difficoltà investigative, lo scetticismo dei superiori, la mancanza di coordinamento, in certi momenti – come questo – sono macigni da spostare con uno stecchino. Ma il senso di inadeguatezza, Carlo lo sa, non dura a lungo: appena varcherà la soglia del suo ufficio i fantasmi spariranno, il timore lascerà il posto a rigore e intransigenza; la complessità delle indagini sarà domata dalla paziente analisi. Torna a guardare l’orizzonte. C’è solo una nave, in lontananza. Alla prossima curva, torneranno anche le isole.
Alzare la voce è servito. Dentro la Volkswagen regna il silenzio. Salvo e Giuseppe, seduti composti, alitano sul vetro dello sportello e disegnano col dito cerchi e stelle. Il loro firmamento. Barbara vuole accendere la radio. Rallenta e cerca la stazione con il notiziario regionale. Dall’impianto solo suoni indistinti. Si indispettisce, rallenta ancora. Le suonano, lei si accosta istintivamente sulla destra, la sorpassano. Alcuni, al clacson, aggiungono un gesto di stizza. Barbara non si scompone e prova ancora a sintonizzare la radio.
Rosario mantiene la sua andatura, ma quella Volkswagen va troppo piano. La carreggiata opposta è libera. Mette la freccia e, senza accelerare più di tanto (quando il dottore legge, gli danno fastidio i repentini cambi di velocità), si allarga oltre la linea di demarcazione.
Adesso la voce del giornalista è chiara. Barbara è soddisfatta. Uno sguardo allo specchietto retrovisore, prima di centrarsi nuovamente sulla carreggiata. Una macchina ha già la freccia per sorpassarla. La riconosce: è quella che le aveva dato la precedenza. Non vuole ostacolarla e mantiene la destra. È il momento di ricambiare il favore. Dietro alla Fiat Argenta, molto ravvicinata, un’altra vettura. Lascerà passare anche questa e poi andrà spedita: dieci minuti e i gemelli saranno a scuola.
Rosario ha quasi invaso l’altra corsia; Carlo guarda a destra e riconosce i bambini che facevano le boccacce. Vorrebbe ricambiare ma si limita ad alzare la mano e accennare un saluto. Un lampo lo abbaglia, segue un boato. Poi fiamme, silenzio. Buio.
Carlo Palermo riapre gli occhi: sangue, lamiere contorte, dolore.
Due farfalle azzurre e una falena volano verso il firmamento. Di loro rimane solo una macchia rossa, sul muro di una palazzina.
Licia Tumminello
Questo racconto viene pubblicato oggi, 9 maggio, giornata in memoria delle vittime di mafia e terrorismo
3 risposte
Un racconto toccante, un contributo per non dimenticare chi ha combattuto la mafia, anche a costo della vita.
Un ricordo drammatico di quanto accadde quel 2 aprile ’85 che l’autrice ci fa rivivere in tutta la sua crudezza.
Complimenti, molto bello!
Brava, hai saputo tratteggiare con leggerezza un evento drammatico, senza omettere quei momenti teneri di vita familiare.