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Illusioni e disillusioni del caporale Giuseppe Grassi

26 Ottobre 2024

‘Giuseppe Grassi. Un po’ di tutto nella prigionia’ è il volume di Elena Benzi che sarà presentato il 27 ottobre alle 17,30 nel Teatro Oratorio di Casale Cremasco, in via Aschedamini 32. E’ il quarto numero della collana Lettere e Diari curata dal Centro Ricerca Alfredo Galmozzi per rendere noti fatti vissuti da chi la storia l’ha fatta. Sono esperienze personali di grande valore documentale e umano, raccontate dagli stessi protagonisti, del tutto autentiche e riportate senza filtri.

Giuseppe Grassi, padre del sindaco Antonio, fu catturato in Sicilia dagli inglesi il 17 luglio 1943. Nel volume che sarà presentato domenica 27 sono raccolte cronache e riflessioni scritte durante la lunga prigionia tra il Nord Africa e la Gran Bretagna.

”L’esperienza del raccontare e del raccontarsi non è di molti – scrive Romano Dasti nell’introduzione -. La gente comune ha avuto spesso bisogno di un’esperienza traumatica come la guerra per far nascere l’esigenza, direi l’urgenza, di farlo. I più non prenderanno più la penna dopo queste esperienze per scrivere di sé. Quella del diario è dunque una testimonianza rara e preziosa che il Centro Galmozzi ha deciso di valorizzare. Giuseppe Grassi partì da Vidolasco per la guerra con qualche velleità e parecchie speranze e ne tornò profondamente disilluso: molte delle sue certezze erano crollate, molte delle sue idee erano cambiate. Il suo è un diario breve, scritto in alcune parti nella forma della lettera, che si concentra su alcune fasi della sua prigionia tra il Nord Africa e la Gran Bretagna. Nel pubblicarlo il Centro Galmozzi vuole rimanere fedele alla sua vocazione, di soggetto che promuove la conoscenza storica del nostro territorio nel Novecento. Quello di Grassi è il quarto diario che in breve arco di tempo viene pubblicato”.

Dasti ringrazia Elena Benzi ”per il rigore e la passione con cui ne ha curato l’edizione, accompagnando il testo di preziose note di contesto e alla famiglia Grassi che ha messo a disposizione il manoscritto e le fotografie”.

 

”Il diario di prigionia del caporal maggiore Giuseppe Grassi, gentilmente concesso dalla famiglia – scrive Elena Benzi – avvia il lettore a un argomento ancora non esaurientemente investigato dalla storiografia italiana e internazionale. Solo negli ultimi decenni. infatti, attraverso studi approfonditi e il ricorso alle fonti documentali, si è mostrata un’attenzione crescente alle condizioni di detenzione dei prigionieri di guerra italiani trattenuti dalle autorità anglo-americane. Ovviamente, il contesto bellico indagato corrisponde al Secondo conflitto mondiale e le dinamiche di prigionia sono quelle intercorse tra vincitori e vinti. Nel contempo, la cosiddetta memorialistica comprensiva delle testimonianze personali, si è rivelata una fonte imprescindibile per la conoscenza dell’argomento. Quella del caporal maggiore Giuseppe Grassi, riassunta da lui stesso sotto il titolo “Un po’ di tutto nella prigionia”, contribuisce a tratteggiare e a stigmatizzare gli elementi tipici della cattività trascorsa in terra di Sua Maestà britannica. Infatti, catturato dagli inglesi il 17 luglio 1943, in Sicilia, Grassi veniva dapprima tradotto in Africa e quindi in Gran Bretagna, per essere rinchiuso nel campo di concentramento di Patterton, nei pressi di Thornliebank, a breve distanza da Glasgow, in Scozia. Entrava in tal modo, nel novero dei circa 158.000 prigionieri italiani trasferiti dagli inglesi nell’Isola. Ciò nonostante, è lecito chiedersi quali motivazioni abbiano ritardato l’accurata ricerca storica riguardante la cattività in mano alleata. Le risposte vanno a toccare alcuni aspetti soggetti a suscettibilità differenti. Infatti, addentrarsi in argomenti giudicati sino a poco tempo or sono poco meno che dei tabù, quali appunto i rapporti con gli Alleati occidentali anglo-americani, implicava la possibilità di porre in luce i comportamenti dei vincitori e, inevitabilmente, anche le loro “colpe”. Una simile forma di reticenza era dettata dal timore di legittimare un atteggiamento revisionista, che potesse attenuare, se non addirittura giustificare le responsabilità dell’Italia fascista e della Germania nazista. Per lungo tempo dunque, la scelta era stata quella di soprassedere. Sempre in questa ottica, sin dall’immediato dopoguerra, si riteneva opportuno porre l’accento sulle esperienze maggiormente drammatiche di internamento e di prigionia vissute dai militari italiani nei campi nazisti o nei lager sovietici. Condannare le penose condizioni dei soldati italiani trattenuti dai tedeschi significava prendere le distanze dalla guerra nazi-fascista e dalle precedenti scelte politiche del Regime. Analogamente, col sottolineare la crudeltà della detenzione nei lager sovietici, si intendeva dimostrare la durezza della società comunista, onde indirizzare lo sguardo allo schieramento occidentale al momento della creazione di nuove alleanze post-belliche. Inoltre, la tragica portata della cattività vissuta in Germania o in Unione Sovietica favoriva già di per sé, la diffusione di un’ampia memorialistica. Diversamente, le meno drammatiche forme di detenzione presso gli anglo-americani – di certo più confortevoli, almeno dal punto di vista materiale – ponevano in secondo piano tali esperienze. Per dirla con le parole di uno storico del calibro del Rochat, è difficile capire perché la memoria di questa prigionia sia “debole”, tanto più che non fu vissuta né percepita come disonorante. Probabilmente conta la mancanza di dimensioni collettive drammatiche: nei campi degli Alleati i prigionieri avevano un trattamento corretto, secondo le convenzioni internazionali. Tuttavia la privazione della libertà protratta per lunghi anni, come pure l’assenza di avvenimenti unita alla mancata conoscenza della sorte dei propri congiunti, favoriva il logorio psico-fisico dei prigionieri, ad onta delle calorie assicurate dalle quotidiane razioni alimentari”.

 

La prigionia in Gran Bretagna 

Il diario del caporal maggiore Giuseppe Grassi si articola tra i meandri dei variegati sentimenti: timori confortati dalle personali certezze di fede; attese e apatie; aspettative e delusioni, che si dipanano lungo il corso dell’intera prigionia, compreso il temuto viaggio atlantico. È doveroso precisare comunque, che la risaputa rigorosità inglese sapeva assicurare – in particolare ai prigionieri trasferiti in Gran Bretagna – un trattamento sufficientemente rispettoso, generalmente conforme alle normative internazionali. Ciò nonostante, la cattività degli italiani su suolo britannico, sebbene comune per numerosi aspetti ad altre prigionie, andava denotando alcune specificità. Il principale aspetto caratterizzante era offerto proprio dal cospicuo numero di prigionieri italiani. Dall’inizio del conflitto, per ragioni di sicurezza  il governo britannico aveva deliberato di trattenere i prigionieri nei territori del Commonwealth, onde evitare di concentrare un elevato quantitativo di nemici “in casa propria”, in considerazione della malaugurata eventualità di un’occupazione nazista del Paese. Tuttavia, dopo accurate valutazioni d’opportunità economica, decideva di mutare il provvedimento. I prigionieri di guerra infatti rappresentavano un’importante fonte di manodopera per il mercato del lavoro e si prediligevano gli italiani, considerati docili, per lo più indifferenti alla politica e facilmente gestibili, per essere impiegati nei disparati settori economici. Il giudizio, che andava rappresentando gli italiani come mediocri combattenti e li differenziava dai tedeschi per una sorta di lassismo ideologico (si poteva intendere anche in senso positivo), non tardava comunque ad assumere i contorni di un pregiudizio razziale. A ogni modo, il loro impiego consentiva di sostituire facilmente la popolazione lavorativa impegnata sotto le armi e al contempo garantiva un valido sostegno all’economia di guerra richiedente un maggiore sforzo produttivo rispetto a quella del tempo ordinario, dal momento che l’economia britannica, dipendente dalle colonie, si ritrovava a essere fortemente penalizzata dallo stato di belligeranza. Il calcolo dei benefici assicurati dall’utilizzo dei prigionieri faceva ben presto superare le perplessità legate al costo e alle difficoltà del loro trasporto. Pertanto, sin dal 1941, in scaglioni via via sempre più consistenti, si procedeva a prelevare i prigionieri italiani dai campi di detenzione africani, o dei Paesi del Commonwealth e dei Dominions, dove erano stati fatti confluire in precedenza. Nel corso degli anni, la Gran Bretagna avrebbe finito con l’ospitare il quantitativo più ingente rispetto a tutti gli Alleati. Dal 1941 al 1944 ne contava intorno a 158.000, all’incirca la metà di tutti i prigionieri italiani catturati dagli inglesi. I restanti venivano distribuiti in India, in Australia, Kenya, Tanganika, Sudafrica, Rhodesia, Nyasaland, Giamaica. Numerosi campi di detenzione si costruivano in Medio Oriente, in Nord Africa, in Palestina, Iraq, Iran e in Egitto. Inoltre, circa 15.000 prigionieri italiani erano ceduti ai francesi, come pure interi contingenti agli americani, contravvenendo alle disposizioni della Convenzione di Ginevra che ne vietava la cessione. Un ulteriore carattere distintivo della cattività in Gran Bretagna era offerto dalla procedura di selezione degli italiani, in virtù della loro località di provenienza e del loro livello militare. Lo storico F.G. Conti enumera 408.000 prigionieri italiani catturati dagli inglesi. Nell’autunno del 1945, il ministero dell’Assistenza post bellica ne contava all’incirca 346.000. La discrepanza è data dalle fonti di consultazione diverse, le quali sono rappresentate dai numerosi enti o uffici che utilizzavano differenti criteri di valutazione. All’incirca la metà dei prigionieri italiani (155.000-158.000) catturati dagli inglesi veniva trasferita in Gran Bretagna. India, Kenya (con Uganda, Tanganika, Somalia) e Sudafrica ne ospitavano complessivamente 104.000. In Medio Oriente se ne contavano 60.000, in Australia 15.000. Nord Africa e Gibilterra ne ospitavano 5.600 circa, Africa occidentale 1.600 circa distribuiti tra Nigeria, Costa d’Oro e Sierra Leone. Ad Aden (Yemen, all’epoca colonia britannica) si trovavano 51 prigionieri italiani, 59 in Canada, 29 in Giamaica. Inoltre, in Rhodesia erano internati 4.700 civili, mentre in Africa Orientale se ne contavano 6.500. La maggioranza dei militari caduti in cattività durante la “Campagna D’Africa” era catturata dagli inglesi, i quali ne cederanno in parte agli americani e in parte ai francesi per ovviare al problema del sostentamento e della vigilanza. Complessivamente durante il corso del secondo conflitto mondiale, i prigionieri italiani raggiungevano all’incirca il numero di 1.300.000. I francesi finivano col detenere 37.000 prigionieri italiani. Gli americani ne contavano 125.000, di cui 51.000 trasferiti negli USA. I tedeschi detenevano nei loro campi circa 600.000 internati militari italiani, mentre l’Unione Sovietica dichiarava 200.000 prigionieri italiani. Infatti, almeno in un primo tempo (1941) le autorità britanniche decidevano di detenere unicamente prigionieri provenienti dall’Italia settentrionale, giudicati meno pigri rispetto ai meridionali. Tuttavia, l’impellente necessità di manodopera faceva superare tale discriminazione con l’applicazione del principio assai più pratico del first come, first picked ossia, primo arrivato, primo scelto.

Le autorità britanniche però, non derogavano circa la selezione di prigionieri italiani appartenenti ai ranghi inferiori delle forze armate. Trasferivano nella madrepatria, per lo più, soldati semplici da poter adibire alle mansioni lavorative senza incorrere nel problema di contravvenire alle normative internazionali, mentre i sottufficiali inseriti nelle unità di lavoro, assolvevano il ruolo di caposquadra. Assai ridotta la presenza di ufficiali, considerati inutili dagli enti inglesi, dal momento che nel rispetto delle convenzioni di prigionia, non potevano essere obbligati a lavorare per i detentori. In ogni trasporto ne erano presenti in numero limitato, solitamente cappellani, rintracciabili in ogni contingente, o ufficiali medici, che prestavano il loro servizio a favore dei connazionali internati. Il modesto quantitativo di ufficiali italiani prigionieri in Gran Bretagna, spiegherebbe probabilmente in parte l’esigua produzione memorialistica che – quale espressione letteraria – era generalmente realizzata da appartenenti a una fascia culturale più elevata, ossia dai superiori graduati maggiormente scolarizzati.

Ragion per cui, la testimonianza del caporal maggiore Giuseppe Grassi rivelando la propria eccezionalità, si dimostra di particolare rilevanza. La cattività su suolo britannico mostrava ancora un’aggiuntiva nota distintiva. Infatti, si doveva contrassegnare anche per il prolungato periodo di detenzione. A motivarlo contribuivano le complicatissime implicazioni storiche, politiche e diplomatiche, che si sviluppavano dall’armistizio, sino a dopo la conclusione della guerra e vedevano i nostri soldati passare – solo sulla carta – dallo status di prigionieri a quello di cobelligeranti, per tramutarsi o meno in cooperatori. Le dinamiche concernenti il rimpatrio, infatti, venivano procrastinate ben oltre la conclusione del conflitto, sebbene il controverso status di prigionieri, formalmente convertitosi, dopo l’armistizio e la dichiarazione di ostilità alla Germania, in quello di cobelligeranti, consentisse già all’Alto Commissariato per i prigionieri di guerra di avanzare, presso le autorità britanniche, la richiesta di liberazione, dal momento che ne appariva vanificato il reimpiego bellico.

Tra il ’44 e il ’46 inoltre, l’Alto Commissariato veniva inondato da parte delle famiglie di richieste di rimpatrio per motivi umanitari, a favore dei prigionieri ammalati o di età elevata, o per quelli aventi a carico più di quattro figli, o ancora per coloro che si dimostravano essere l’unico sostentamento della madre sola.  Lo storico A. Osti Guerrazzi asserisce che solitamente gli ufficiali di complemento scrivevano con l’intento di ricordare i compagni caduti e le loro imprese o di celebrare la storia alla quale essi stessi avevano partecipato. Diversamente, i vertici militari scrivevano per tramandare la propria verità e nel contempo autoassolversi di fronte alla storia.

Tuttavia, non possono essere trascurate le memorie scritte da sottoufficiali o da semplici soldati composte per non dimenticare e per dare un senso all’esperienza vissuta, non paragonabile comunque, con la durata della detenzione in mano dei sovietici, che si doveva protrarre in numerosi casi, sino agli anni ’50, erano presentate da enti o aziende che si dicevano necessitare di particolari figure professionali per riprendere la propria attività. Tuttavia – secondo l’avviso di alcuni storici – l’Alto Commissariato per i prigionieri di Guerra, presieduto dal generale Gazzera, non agiva sempre con modalità lineari e cristalline. Preferiva infatti, rimpatriare le alte sfere dell’esercito anche di conservata fede fascista, trascurando sottufficiali e soldati. Inoltre favoriva rimpatri individuali sulla spinta di raccomandazioni da parte di notabili, elevate gerarchie militari o esponenti politici. A difesa del generale Gazzera (semmai se ne avvertisse la necessità) va pure precisato che l’alto ufficiale incaricato di regolamentare, attraverso accordi con le autorità militari alleate, la modalità di collaborazione prestata dai prigionieri italiani, onde favorirne il rimpatrio, in realtà poteva fare ben poco, poiché la posizione ricoperta dall’Italia – stante l’interpretazione anglo-americana – era quella di cobelligerante e non di alleata, e la differenza non poteva essere ricondotta a una semplice sfumatura. Di fatto gli inglesi, nell’immediatezza dell’attestazione della cobelligeranza italiana, non erano disposti a cancellare con un colpo di spugna la precedente inimicizia e a rilasciare i prigionieri, in particolare alla luce della situazione politico-militare, che era venuta a crearsi nella penisola. L’Italia d’altronde si ritrovava divisa in due schieramenti opposti e l’esercito (in gran parte distribuito sui diversi fronti di guerra) nella propria interezza, lasciava molto dubitare circa la sua fedeltà al nuovo Governo del Sud.

 

Giuseppe Grassi

A Vidolasco, laboriosa località rurale inclusa nel circondario Cremasco, il 20 giugno 1910, vedeva la luce Giuseppe Grassi. Il paese, che riferiva le sue antiche origini all’Età del Rame, all’atto della nascita di Giuseppe, aveva in gran parte cessato la pratica della viticoltura, per la quale era rinomato e costituiva ancora una singola entità amministrativa. Di lì a qualche anno, e più precisamente nel 1934, mediante la fusione con la limitrofa realtà municipale, doveva costituire – non senza remore e conservando un vago senso di penalizzazione – il Comune di Casale Cremasco-Vidolasco. La documentazione anagrafica attesta che il giorno 22 giugno 1910, Ernesto Grassi di professione fittabile, accompagnato da due testimoni, secondo l’usanza dell’epoca, nella sede comunale in presenza del delegato del sindaco, attribuendosene la paternità, ufficializzava la nascita del figlio, avvenuta nell’abitazione posta in via Minore n° 20, dalla moglie Selene Pozzali, seco lui convivente. Al bambino assegnava i nomi di Giuseppe, Angelo, Giacomo. La mamma Selene era destinata ad accompagnare il piccolo Giuseppe solamente per il tempo di una decade. Moriva infatti appena trentottenne, l’11 giugno 1920, falcidiata dai postumi della spagnola la temutissima influenza che già imperversava dal biennio precedente. Giuseppe Grassi, pirito avventuroso e desideroso di conoscere, dopo la vana ricerca di un lavoro che lo gratificasse, nel 1936 decise di arruolarsi nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN).

Il percorso militare di Grassi aveva inizio con l’imbarco a Napoli nell’ottobre del ’36. Il 5 novembre avveniva lo sbarco a Massaua, importante porto della colonia italiana di Eritrea, da poco conquistata e base logistica per le successive operazioni in Africa orientale. Di lì a breve l’adesione del Governo alla bellicosa politica della Germania, sanciva l’intervento italiano a quello che si sarebbe tramutato nel Secondo conflitto mondiale. La mobilitazione generale vedeva Grassi dislocato in territorio di guerra dapprima (1941) alla frontiera italo-jugoslava e in Balcania per essere trasferito nel 1942, nello scacchiere mediterraneo, dove sarebbe stato interessato alla difesa costiera. Era in questo contesto che il 17 luglio 1943 veniva catturato dagli inglesi in Sicilia, a seguito dell’occupazione alleata dell’isola. Trasferito in Africa, nel campo di concentramento di Biserta, dopo una serie di perenigrazioni, l’anno successivo veniva tradotto nel campo di lavoro di Patterton, nei pressi di Thornliebank, a pochi chilometri da Glasgow, in Scozia. La logorante attesa del rimpatrio per il prigioniero Giuseppe Grassi, si doveva concludere solo nel 1946. Infatti, salpava da Liverpool il 20 marzo 1946, per sbarcare a Napoli, appena due giorni, recando con sè le illusioni e le disillusioni che nel tempo aveva maturato.

 

Elena Benzi

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