Capita da tempo nel nostro Paese che quando qualcuno ha il coraggio di sollevare un problema (spesso peraltro da tempo sotto gli occhi di tutti), gli altri si affrettino a smentirlo (“a me no, non risulta”, “no, a me non è mai capitato”) se non a colpevolizzarlo (“c’è qualcosa di sbagliato in te, se ti succedono queste cose”, se non “svegliati bello, questo è il mondo. Adattati”). Per questo mi preoccupano le risposte fornite alla lettera del giovane milanese neodiplomato,
una lettera di denuncia, ma pacata, misurata, una lettera intelligente, che pone una questione di sistema che non può essere ignorata. In sintesi la questione è: la scuola, istituzione deputata alla formazione delle nuove generazioni, produce invece sempre più, ogni giorno, sofferenza, senso di vuoto e di inutilità, nel migliore dei casi noia. Non credo che la risposta a questo problema possa essere quella proposta dal compagno neodiplomato di Ladispoli
in difesa dello status quo: esistono anche docenti bravissimi, scrive. Figure eroiche che si stagliano in un mare di mediocrità. Chi è fortunato, può incontrarne una nel suo percorso e salvarsi. Capirete che non è questo il punto.
E la risposta non può essere neanche il solito rimpallo di responsabilità: la colpa del disagio dei giovani, replicano in molti, non è della scuola ma piuttosto delle famiglie o della “società”, un’entità piuttosto confusa e sempre malevola. Qualcuno addirittura pensa che, per risolvere il
problema, sarebbe giusto estromettere del tutto le famiglie “iperprotettive” dalla scuola, quelle stesse famiglie a cui si chiede, dall’infanzia dei figli, corresponsabilità e partecipazione negli organi collegiali. Improvvisamente i genitori dovrebbero scomparire, o meglio vanno bene se applaudono alla feste di fine anno, annuiscono durante i consigli di classe e popolano gli open day ma diventano il male assoluto appena hanno qualche criticità da segnalare (forse dovremmo chiarirci un po’ tutti le idee sul significato del rapporto scuola-famiglia).
Mi sento quindi di dover rispondere brevemente, fuori dal coro, a questo studente, che ringrazio profondamente per il problema che pone e per il modo maturo in cui lo pone. La sua riflessione nasce, certo, da un piccolo angolo di mondo – quello del liceo classico (una scuola frequentata da una minoranza) nella città di Milano (una città tra le tante) – e dalla sua particolare traiettoria biografica (che non conosciamo), ma si apre su due questioni generali vitali per la sopravvivenza del sistema scolastico pubblico italiano: quale scuola vogliamo per il futuro e quale ruolo dei giovani al suo interno.
Ebbene è vero; lo studente neodiplomato milanese ci dice che il re è nudo: questa scuola produce per le sue stesse modalità di funzionamento una violenza strutturale inimmaginabile, perché ha adottato il linguaggio e la logica aziendale (fatta di crediti, certificazioni, badge, indicatori e misurazioni) e la sua corrispondente visione di uomo neoliberale (individualista, competitivo, performante, eccellente) e si è allontanata dalla sua promessa educativa originaria: l’attenzione e la cura per la crescita dell’umano nella sua relazione con mondo sociale e naturale. Il senso di vuoto e di malessere dei giovani sta nell’angoscia generata da questa progressiva disumanizzazione (o banalizzazione, che è poi la stessa cosa) dei contenuti, delle forme e delle relazioni, in tempi in cui invece si rende necessario – a fronte di accelerate trasformazioni socio-culturali e dell’avanzare del cosiddetto post-umano – lavorare per la fondazione di una nuova antropologia.
In vista di questa necessaria rifondazione i giovani – alcuni giovani, come colui che scrive . chiedono di avere un ruolo attivo. Non vogliono stare seduti fermi nei loro banchi a fare sì con la testa, prendere appunti e poi essere interrogati per aspettare poi un voto che comparirà sul
registro elettronico, come in un eterno ritorno. Vogliono essere considerati “persone”, diventare interlocutori, prendere parola e progettare il futuro, mettendosi in dialogo con adulti credibili.
Come generazione responsabile di questo disastro, che noi abbiamo creato dentro e fuori dalla scuola, possiamo scuotere la testa e continuare a rimpallarci tra noi la responsabilità educativa (“è della scuola”, “no, è della famiglia”, “no, è della politica”) e continuare a litigare per lasciare tutto come prima.
Oppure, possiamo avviare, come ci chiede con grande semplicità questo giovane, un ripensamento critico del sistema scuola, dei suoi fondamenti, delle sue metodologie, delle sue progettualità, delle sue responsabilità storiche. Lo possiamo fare tutti, negli ambiti di nostra competenza. Credo sarebbe buona cosa se i dirigenti leggessero la lettera scritta da questo studente nei collegi docenti in apertura di anno scolastico e si interrogassero sul suo significato e se studenti e studentesse, in tutte le classi, fossero incoraggiati nella presa di parola e coinvolti nella ricostruzione comune della scuola del futuro, dalle fondamenta (non è questo il più autentico significato del fare politica?).
Invito il giovane milanese a non mollare e a continuare a far sentire la sua voce critica. Lo incoraggio a continuare a ripetere l’ovvio che nessuno oggi vuole sentire: non è scuola quella che produce malessere, frustrazione, risentimento, senso di impotenza e incapacità, disistima.
Se accade, non possiamo più stare fermi e fare finta di niente.
Caro studente, i tuoi cinque anni non sono stati inutili, se continuerai a ricordare, in questi tempi di smarrimento, che la scuola non deve essere una scuola di sopravvivenza (altrimenti manderemmo i nostri figli nella giungla e staremmo ad aspettare se tornano), ma pratica
quotidiana di profondità di pensiero, riflessività, fiducia, dialogo, comunità.
I tuoi cinque anni non saranno stati inutili se serviranno a ricordare a noi docenti, ogni volta che entriamo in aula che la scuola non è fatta solo per chi “è portato”, per i brillanti, per quelli che vincono i premi, né per i figli di, né per chi si può permettere costose lezioni private pomeridiane. È importante soprattutto per tutti gli altri: quelli che non sono motivati, i figli di nessuno, quelli che faticano, gli ansiosi, gli annoiati, i distratti, gli irrequieti, i ritardatari…
E la sua bontà – la sua sfida – si misura nella capacità di intercettare, appassionare, sostenere nella crescita proprio questi “altri”, tanti, diversi, imperfetti…faticosamente umani.
Angela Biscaldi
Sotto il testo della lettera dello studente milanese neo diplomato
Sono un neo maturato di un liceo classico milanese e, a distanza di un mese dalla riapertura delle scuole, ci tenevo a scrivere una lettera dove poter condividere alcune riflessioni sui cinque anni di scuola che ho passato e, in base a queste, sul sistema scolastico italiano in generale.
Il primo pensiero che mi è venuto in mente di fronte a tutte le persone che mi aspettavano fuori dall’aula della prova orale, è stato: «Ne è valsa la pena?», «È così che immaginavo mi sarei sentito?», «Mi sento ripagato di questi anni?». Purtroppo, dopo averci riflettuto per non poche settimane, la risposta è che tutto ciò che ho sentito, o che mi rimane, è solo un grande vuoto; un vuoto di cui ritengo pienamente responsabili questi anni di scuola.
Ebbene, in una scuola sempre più dilaniata dalla retorica del merito, della performance e dell’eccellenza, non ho visto niente di tutto questo. Al contrario, ho visto una generazione, quella del Covid, che per soddisfare aspettative e canoni sempre meno realistici sta rischiando il completo annullamento: ciò che conta è il risultato, non il percorso, quello che sei è il voto, non la tua crescita e le tue esperienze, l’importante è andare avanti a denti stretti e non fermarsi mai, almeno fino a quando non raggiungi il burnout: le relazioni sociali, gli hobby, le proprie passioni vengono tutte dopo.
Sapete di fronte a cosa ci siamo trovati in questi anni, quando la preoccupazione degli «adulti» non era come stessero i loro figli, ma quale fosse la più grossa sparata settimanale della politica? Ci siamo trovati nei bagni a piangere, a vomitare per l’ansia, a mordere un pezzo di stoffa per non fare rumore mentre avevamo gli attacchi di panico; ci siamo trovati alle tre di notte ad assumere bevande energetiche per non addormentarci, per continuare a studiare, a fare di meglio, a essere migliori degli altri; ci siamo trovati la mattina a rubare i calmanti dei nostri genitori per trovare il coraggio di andarci… a scuola; ci siamo trovati in lacrime, davanti allo specchio, provando a far finta di sorridere e dire che andasse tutto bene: io e molti altri studenti d’Italia.
Quello che ci è stato insegnato è che, nella vita, non è importante essere rispettosi con gli altri, aiutare chi è in difficoltà o essere gentili con chi ci sta parlando, ma pensare solo a noi stessi, umiliare il prossimo e scavalcarlo per raggiungere i propri obiettivi. Lo abbiamo imparato proprio a scuola: un posto, dove, come ho già detto, vengono considerati solo aspetti come la media scolastica, i voti, i risultati che hai ottenuto o le tue certificazioni; non la persona che si è.
Del resto lo dicono anche agli open day: se i vostri figli sono impegnati in altre attività extra scolastiche che richiedano più di due ore a settimana, la porta è là in fondo.
E così una generazione intera è stata piegata al nome del risultato, del numero, della prestazione: migliaia di ragazze e di ragazzi annullati da un sistema che non si cura delle specificità e delle qualità personali di ognuno di loro, ma delle statistiche e delle graduatorie in cui possono essere racchiusi.
Dopo cinque anni dove sono stati questi gli insegnamenti datimi, in cui era considerato non solo normale ma perfino giusto umiliare e far piangere i propri studenti, per delle aspettative che non gli si chiede ma gli si ordina di rispettare, capitemi quando dico che non sono soddisfatto di questo percorso.
Dire che se ne esca temprati e che da ora sapremo come stare al mondo vale fino a una certa, perché non credo che la scuola pubblica sia stata creata per insegnare che nella vita bisogna essere insensibili, che dobbiamo accettare di avere le crisi nervose per la pressione troppo alta, che se non raggiungiamo un certo standard allora siamo un fallimento e che va data più importanza al risultato, non alla salute mentale o alla nostra felicità.
Ora, sia chiaro, io non accuso nessuno in particolare, non i corpi docenti delle scuole, né i presidi che si occupano della loro organizzazione, tantomeno l’attuale governo: io accuso un sistema in toto, quello della scuola italiana, che, a dispetto della formazione che mi possa dare o meno, non sta insegnando la cosa più importante che vada insegnata, e cioè che fallire è normale, che sbagliare è normale e che dedicare tempo a se stessi, costruendo la persona che si vuole essere, dovrebbe essere la priorità, non «il resto che viene dopo». Quale insegnamento ci sarà utile, se nei cinque anni più formativi della nostra vita non avremo avuto nemmeno il tempo di formare la nostra persona?
Abbiamo gridato, abbiamo protestato, abbiamo visto i nostri coetanei cadere in depressione, farsi del male, non essere più i ragazzi e le ragazze che conoscevamo o perfino togliersi la vita, e non ci viene dato nemmeno lo psicologo a scuola, venendo criticati come scansafatiche, giovani deviati che non pensano ad altro che divertirsi: io non lo accetto, non lo posso accettare, perché in un sistema del genere, in un mondo di questo tipo gli scansafatiche di cui si parla sono quelli che girano lo sguardo dall’altra parte e che alla richiesta di una scuola dove si possa andare senza timore, non dicono nulla.
Non so che cosa voglio ottenere scrivendo questa lettera, forse voglio solo sfogarmi e provare a esprimere, almeno in parte, quello che sento, quello che penso: vorrei che non fosse un fuoco di paglia, ecco, vorrei che la gente si interrogasse seriamente sul modello di scuola che desideriamo e quindi sul modello di società a cui aspiriamo, perché è dalla scuola che parte tutto, che si pongono le basi del paese in cui vivremo.
Tra un mese riprenderanno le lezioni per centinaia di migliaia di studenti, studenti che non rimarranno per sempre tali e che un giorno saranno i nuovi adulti: chiediamoci davvero quale sia l’insegnamento che gli vogliamo dare, perché sarà su quello che si baseranno quando dovranno fare delle scelte, quando dovranno decidere come condurre la propria vita e comportarsi nei confronti degli altri.
Pertanto, adesso, vorrei fare un appello non solo al governo ma a tutte le forze politiche del Paese, chiedendo loro di ragionare seriamente su che tipo di scuola si vuole costruire e su che modello basare l’insegnamento da dare ai prossimi studenti; facendolo con gli studenti, non senza. È da questo ragionamento che scegliamo in che Paese vivere e che società avere: sarebbe un peccato non farlo e non dargli la considerazione che, difatti, non gli viene ancora data.
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8 risposte
L’articolo mi sembra molto sbilanciato a favore degli alunni che spesso sono obbligati ad andare a scuola. E alcuni sono obbligati alla scelta di una scuola di un certo prestigio: basti pensare al declino degli istituti tecnici a favore dei licei. Detto questo, il primo passo sarebbe quello di impostare i concorsi per docenti in modo da verificare se siano o meno in grado di stabilire relazioni positive. Se siano empatici. Che non significa accettare tutto ciò che viene dai ragazzi come spesso accade ora, perdonando loro qualsiasi mancanza. Molti vanno avanti per inerzia, mentre gli insegnanti sono ” obbligati” a mandare avanti quasi tutti.
Mia figlia ha frequentato un liceo in cui si era abbastanza attenti alle persone piuttosto che insistere sul risultato. Una severità esagerata su alcuni comportamenti tipicamente adolescenziali di gruppo, ma individualmente la disponibilità umana dei docenti c’era. Poi però all’università la musica è cambiata e tutto è diventato difficile. Insegnanti sul piedistallo ai quali gli studenti non osavano chiedere nulla per paura di ritorsioni: correzione di testi d’esame con tempi biblici e senza possibilità di avere riscontri. Comunicazione tra allievi e docenti esclusivamente per mail con risposte ( se c’erano) ritardatarie e supponenti. Nessuna relazione umana. Forse nelle facoltà non scientifiche non è così. Ma anche ragazzi con delle doti perdono la voglia.
Premesso che di insegnanti che hanno sbagliato lavoro ce ne sono e ce ne sono sempre stati, la professoressa Biscaldi ha mai provato ad insegnare alla secondaria di primo e secondo grado? I problemi sono tantissimi, alcuni molto pesanti, mescolati insieme, da affrontare senza i mezzi adatti. La scuola va riformata prima di tutto in questo: non è che mettendo tutti insieme si fa integrazione, non è che mandando avanti tutti senza richiedere impegno e risultati sufficienti si aiuta a crescere. Le competenze tanto sbandierate si possono valutare solo se prima ci sono conoscenze. E se i ragazzi non hanno a disposizione i mezzi per raggiungerli ognuno con le proprie doti in modo diverso e personale, si è tutti in difficoltà. Ragazzi e adulti.
La professoressa Biscaldi ha insegnato in una scuola superiore sì, presso un Liceo. È stata la mia docente di storia e filosofia (poi mia docente all’università) ed è stata una delle poche docenti valide di cui ho memoria nella mia carriera scolastica, ora che ho 40 anni.
Lotta da anni per l’equità e per gli studenti in un Paese, ahimè, da svecchiare e rinnovare.
Nella lettera del maturato mi ritrovo pienamente quando si parla dell’atteggiamento degli insegnanti di fronte a ragazzi che svolgono attività extrascolastiche. Ho avuto di fronte a me madri che durante i colloqui individuali, pur consapevoli di non avere figli definibili ‘studenti modello’, lamentavano comportamenti da parte di alcuni docenti umilianti, mortificanti nei confronti dei loro figli per il fatto che si allenavano in attività sportive, magari sottoponendosi a sacrifici notevoli. So di insegnanti che apertamente consigliano di lasciare lo sport che toglie tempo allo studio, come se i ragazzi potessero crescere come individui esclusivamente sui libri.
La scuola ha il compito di aiutare i ragazzi a crescere, a conoscersi, a riflettere su se stessi e su ciò che li circonda, utilizzando i contenuti delle diverse discipline come mezzi per raggiungere lo scopo. Lo studio dovrebbe portare a individuare dentro se stessi i propri limiti, sempre comunque migliorabili, ma anche le proprie risorse. L’insegnante autorevole sa distinguere la prestazione del momento e la sua conseguente valutazione, dalla considerazione dovuta alla persona che si trova di fronte. Non c’è coincidenza. Se l’adulto non è in grado di fare comprendere al ragazzo che il numero che è chiamato ad esprimere non corrisponde a un giudizio sulla persona, fallisce e crea ansia e disagio. Lo studente capisce se chi sta in cattedra esprime solo numeri o se ha a cuore la persona nella sua interezza. Non è possibile accettare comportamenti non adeguati, mancanza di impegno e attenzione. La scuola dell’ “avanti tutti” per non creare problemi agli alunni, alle famiglie e ai docenti stessi non porta all’educazione e alla crescita dei giovani. Questi infatti non sanno più quello che veramente valgono e ciò su cui si devono impegnare maggiormente. Un tempo la “media dell’otto” era un orgoglio. Oggi è la mediocrità.
Di solito ogni azione si giudica dai risultati. Visto gli esiti dei test invalsi, qualche riflessione sarebbe opportuna. Se poi il coinvolgimento delle famiglie nella scuola significa la promozione dei bocciati dopo il ricorso al tribunale amministrativo, forse ci sono elementi sui quali riflettere. Si deve andare a scuola per imparare oppure per avere un supporto psicologico?
Senza voler trovare soluzioni perché non ho competenze e senza fare confronti impossibili con il Manin di mezzo secolo fa, mi sento di essere d’accordo con la signora Pieri. La scuola è diventata una azienda come tante altre realtà. Pertanto, se di azienda si parla, bisognerebbe rivedere concorsi di ammissione per insegnanti e obbligo di aggiornamento. Lo studente ha capito che per ottemperare alle richieste di questa scuola basta fare il proprio compitino per avere la sufficienza sul registro elettronico. Già ai miei tempi si era capito che la scuola è un enorme area di parcheggio da cui uscirne al più presto e che cambiarla da dentro è quasi impossibile, escluso qualche eroismo. È un problema generazionale? Forse chi insegna oggi non è stato un bravo studente. Ci sono metodi per evitare questa sciagura? (vale per tutte le istituzioni…). Se è un problema generazionale bisogna allora attendere che il tempo faccia il suo corso, ma non credo nelle proprietà taumaturgiche del tempo. La riforma della scuola andrebbe di pari passo con quella della società, argomento mastodontico e per certi versi pruriginoso.
PS: chi si ricorda il serial televisivo anni 70, “Diario di un maestro” con Bruno Cirino? Sono passati 50 anni e i problemi sono gli stessi…