L’invenzione più brillante che dà fiato a Io sono l’Abisso di Donato Carrisi (scrittore noir che non mi ha mai entusiasmato e regista di film non particolarmente memorabili) sta nell’originale trasformazione di un serial killer in un cavaliere sanguinario che salva la fanciulla dal pericolo e annienta i suoi squallidi persecutori. Questo permette uno sviluppo quanto meno interessante, in particolare l’adattamento, in un finale tra il drammatico e il patetico, dell’antico motivo della Bella e della Bestia.
Lo spietato killer infatti, che del resto non ha fatto altro che applicare il male che ha sempre subito, si trasforma in una creatura quasi patetica, nel solco di una lunga tradizione presente nella letteratura gotica ed horror. Peraltro, questo particolare esito della trama sembra mettere in discussione la “circolarità del male” che (a detta degli aficionados di Carrisi) sembra essere uno dei punti chiave della sua narrativa (non solo sua, del resto, dato che il fatale arrotolarsi del male su sé stesso, le funeste conseguenze di un atto criminoso – o di una debolezza, di uno sbaglio – sono una componente molto presente nei generi narrativi che Carrisi pratica), Il fatto è che la “filosofia” dello scrittore – regista e una lettura troppo in profondità delle sue opere (di questa in particolare) non vanno prese troppo sul serio: come sempre gli elementi di riflessione e le considerazioni morali (a volte anche acute: vedi il doloroso scontro sul femminicidio tra l’assassino della fidanzata e la madre) risultano in definitiva funzionali all’arricchimento e alla suggestione della trama.
Anche se si deve concedere un maggior impegno autoriale, rispetto ai film precedenti, il risultato dell’ultima fatica di Carrisi non convince del tutto. A parte i difetti di sceneggiatura che qualche spettatore può anche non ritenere tali (e cioè una trama complessa, spezzata in troppi frammenti slegati e in passaggi logico – temporali non sempre chiari), Carrisi dimostra chiaramente come uno stile ormai codificato (alla Dario Argento) sia diventato maniera: primi piani che occupano l’intero schermo, dettagli del viso che appare scomposto in tanti minuti particolari, oggetti isolati nello spazio ed ingranditi, colori vivissimi e allucinati, silenzi protratti all’infinito. Tutto questo dovrebbe accrescere la suspense, ma in fondo senza risultato, anche a causa di un ritmo spesso lento, basato sull’equivoco (o sulla scelta di stile) che la malattia mentale sia rappresentabile solo attraverso inquadrature ossessive e distorte e una claustrofobia che replica all’infinito la solitudine del “mostro”. In certi momenti dell’opera, lo stile di Carrisi sembra rinviare addirittura ad Antonioni, e alla sua trilogia dell’incomunicabilità; e forse non è un’ipotesi del tutto fuori strada, dato che Carrisi è regista colto: il volto deformato dell’assassino ricorda Nosferatu di Murnau, così come il risuonare improvviso di un fischio inquietante richiama M di Fritz Lang, il cui protagonista, com’è noto, è appunto un maniaco assassino di bambini.
Io sono l’Abisso, tuttavia, pur dando atto di di un maggior sforzo di creatività, non riesce a suscitare fino in fondo l’interesse e l’emozione degli spettatori
Vittorio Dornetti
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