GLI EDITORIALI DI ADA FERRARI
Ma sì, sarò volutamente provocatoria e affronterò la questione partendo dall’umile concretezza dell’infinitamente piccolo. Cosa di più piccolo di un bottone? Se una giacca ne perde uno si sa che, nell’impossibilità di trovarlo uguale, vanno cambiati tutti. Una seccatura agevolmente superabile fino all’altro ieri: uscivi, ti infilavi in una merceria e non avevi che l’imbarazzo della scelta. Già, merceria: al solo sentirla, la parola intenerisce e se poi ti spingi a rammentare che corso Garibaldi nei suoi anni d’oro ospitava persino una leggendaria Casa del Bottone, ecco che la nostalgia diventa commozione. Ma che fare oggi, in una Cremona che pare aver elevato una muraglia di snobistica ostilità nei confronti di ogni merce utile ai piccoli e concreti bisogni della vita quotidiana? Senza uno straccio di soluzione a portata di mano, non resta che l’oracolo digitale che interpello con l’ansia dell’argonauta in procinto di affacciarsi sui misteri del vuoto cosmico. L’ esito, indirizzandomi su Crema, mi lascia basita. Ne concludo che in una città di settantamila abitanti, a suo tempo vetrina di una prosperità commerciale perfettamente attrezzata per rispondere a qualunque esigenza, nell’anno di grazia 2022, per trovare un bottone sartoriale mi tocca andare a Crema.
A quali conclusioni conduca la parabola appare ovvio. Continuando di questo passo, Cremona fra pochi anni non avrà più un habitat adatto allo svolgimento della vita quotidiana. Il che in buona sostanza significa che, qualora l’oggetto del desiderio non sia un kebab o un cellulare asiatico, per tutto il resto o quasi, occorrerà mettersi al volante e raggiungere qualche orribile capannone commerciale della cintura extraurbana, rendendo per giunta un pessimo servizio alla già pessima qualità dell’aria. Sono dunque parecchie le criticità che si stanno intrecciando e proiettano poco rassicuranti ombre sul futuro cittadino. Non solo l’inerzia sconcertante con cui l’Amministrazione guarda
alla situazione ambientale aggravandone il degrado e regolarmente scegliendo, nell’eterno aut aut fra salute e posti di lavoro, i peggiori ripieghi. Non solo l’isolamento ferroviario che negli anni ci ha balcanizzati tagliandoci fuori dalle grandi direttrici strategiche, col danno che ne consegue per il mondo delle professioni vincolate a un certo tipo di mobilità. A tutto questo va aggiunto che, a giudicare dalle vetrine spente per sempre e dal commercio di vicinanza in via di estinzione, la vivibilità complessiva della città, ovviamente non misurabile solo coi numeri dei flussi turistici o della pur preziosa popolazione universitaria, è entrata in un ciclo di inarrestabile flessione.
A mali estremi, estremi rimedi: perché non dichiarare ‘specie protetta’ alcune categorie commerciali tuttora utili, allo scopo di impedirne la
completa estinzione? In compenso si moltiplicano a ritmo esponenziale improvvisati e scialbi punti vendita, bandierine piantate lì per qualche mese da questa o quella catena collegata a questa o a quella multinazionale. Il commercio ancora in grado di raccontare l’identità non solo economica ma storica e culturale della città si conta sulle dita di una sola mano. E si concentra nel ristretto quadrilatero della
zona duomo, riserva indiana vegeta e tirata a lucido a beneficio dei turisti che ripartiranno convinti di aver visitato una mirabile città tuttora a misura d’uomo. Altrove impera il mordi e fuggi, erba infestante che ha messo in fuga il resto. Si poteva far meglio? Indubbiamente, sì. Si poteva e doveva fare meglio, evitando le saracinesche abbassate e la definitiva resa di nomi storici del commercio locale scientemente
indotti al fallimento per la dissennata moltiplicazione di concessioni che ha stretto la città nell’assedio dei mega centri commerciali e del loro schiacciante potere concorrenziale. Logiche di irriflessiva e selvaggia liberalizzazione hanno prodotto chiusure, tramortito il centro storico e con lui mortificata l’anima stessa di Cremona.
Ma ecco che, di domanda in domanda, si parte da un bottone e si arriva alla questione cruciale: che significa oggi, nel concreto delle articolazioni operative e delle scelte programmatorie, governare una città? L’ Amministrazione attualmente in carica esordì, come tutti
ricordiamo, all’insegna della famosa ‘smart city’, che poi vuol dire città intelligente. Legittimo dunque interrogarsi sui concreti sottintesi di tanto ambiziosa qualifica. La prima evidenza è che per città intelligente si intendesse città digitalizzata. Il che va benissimo, è quella infatti l’infrastruttura essenziale per ogni dinamica di sviluppo e crescita, nonché capitolo centrale del famoso Pnrr. Ma se il fine della smart city non è solo un valore astratto bensì il tangibile miglioramento della nostra qualità di vita, si converrà che la presenza di un’infrastruttura è condizione necessaria ma tutt’altro che sufficiente. Ben altro occorre: la scintilla di un’idea, di un progetto di città, di un modello di sviluppo che, pur senza scivolare nel dirigismo, sappia guidare con polso fermo la leva dei mezzi e quella dei fini. Banali esempi presi di peso dall’esperienza quotidiana ci dicono fra l’altro che, almeno per ora, nel prodigioso mondo digitale non è tutt’oro quel che luce. Chiunque abbia a che fare con la pubblica amministrazione, con gestori di servizi e così via ha ormai ampiamente sperimentato che per semplificarci la vita ed evitarci il tradizionale calvario di chilometri di cartacce e certificati non basta la creazione di archivi digitali. Occorre anche il passo successivo: cioè che questi archivi possano e soprattutto vogliano dialogare fra loro. E, per prudente pietà, non m’inoltro nello spinoso sentiero. Viviamo, in effetti, una fase curiosamente asimmetrica e disarmonica. Le tecnologie procedono con passi da gigante mentre sempre
più labile appare la capacità di chi governa di orientarle ad autentico vantaggio della collettività. L’intelligenza digitale procede. Langue invece l’intelligenza politica e con lei la capacità e il coraggio di ideare e programmare il futuro collettivo mantenendo un decente rapporto fra scelte di governo e bene comune. Tutto è affidato a una specie di spontaneismo di corto respiro che, impropriamente chiamato ‘mercato’, si è impossessato della cabina di regia un tempo occupata, con ben altra consapevolezza di ruolo e responsabilità strategica, dai titolari dei cosiddetti poteri pubblici . ‘Ce lo chiede il mercato’ è ormai la canzone del giorno. In suo nome si fanno affari, o presunti tali, si privatizza, si spacchetta, si svendono beni di famiglia, si cedono salvadanai che ci avevano fin qui garantito quote di autonomia, forza contrattuale e libertà.
E intanto, nel disinteresse dei più, il senso alto e forte della parola municipalismo diventa carta straccia. Anche questo ‘ce lo chiede il mercato’ ? Non saprei rispondere. Né vedo perché continuare a chiamare mercato quel che è, per lo più, banale arena di interessi speculativi.
Lo so, ero partita da un bottone. Ma in viaggio verso Crema come negare alla testa il suo passatempo preferito?
Ada Ferrari
8 risposte
Grande ADA perfetto e intrigante quadro della situazione che si vede e respira nella nostra città….creativa e bella la provocazione….Crema. Mi auguro che la nostra municipalità legga e consideri prese di posizione in favore della Città e suoi abitanti…. ma penso purtroppo che questo non si verificherà….manca la tua Creatività di vedute. Ancora BRAVA !!!
Dal bottone ……alla chiara evidenza di un insieme di incapaci alla guida della città e di una provincia oramai allo sbando.
STUM SCHIS forse non è una libera e congenita scelta, ma una scelta obbligata da povertà e incapacità di idee.
Ho letto con dispiacere, ma conosco bene la situazione. .
A chi fa impresa come me non è permesso intristirsi troppo, però condivido tutto quello che ha scritto ricordando, fra l’altro, una mia lettera al quotidiano di ormai quasi 20 anni fa in cui titolavo ” non spegnete le luci della città”. Fece molto rumore, ma tutto fini’ nella solita sterile sfilza di geremiadi.
Era forse uno dei primi momenti in cui si parlava di queste cose ed aver previsto quello che invece è effettivamente accaduto mi fa ancora più tristezza.
Parlano bene in tanti, ma nei fatti scelte ripetitive e imprevidenti ci hanno reso una città vecchia, nella mente e nell’età, autoreferenziale ai piani alti come al bar, incapace di leggere i tempi, incapace di capire da dove e come arriva la vitalità economica e sociale di una società. Il commercio è un segno palese dello stato dell’arte.
Ci è rimasto il mercato, dove qualche bottone in verità si trova, anche se le mani operose sono per lo più rumene o cinesi: evidentemente, anche per queste cosucce siamo in altre faccende affaccendati.
Ci sono ragioni economiche e politiche che stanno sopra le nostre teste, ma le scelte quotidiane sono individuali e forse, mettendo specchi in giro, chi passa vedrebbe la propria immagine e potrebbe sorgergli il dubbio di essere un pochino responsabile del vuoto che gli sta intorno.
Sembriamo comparse, troppo spesso ignare delle conseguenze di ogni comportamento e se potessimo filmare chi gira per le strade di Cremona, bella da sempre ma tradita da almeno 30 anni, capiremmo di più di gente che dice di amarla ma che sta facendo l’esatto contrario.
Condivido il richiamo alle responsabilità di tutti e ciascuno. Guai a sparare solo sul manovratore. Un ragionamento sulla società civile, a proposito del ‘stum schis’ di Sperangelo Bandera, è comunque doveroso.
Ci manca un Lebrac. Magari almeno la guerra dei bottoni potremmo sperare di vincerla. Per il resto non c’è speranza.
Brava Ada, grazie per sollevare ancora una volta il tema del commercio a Cremona, che è alquanto spinoso per non dire drammatico.
In una città dove le eccellenze vengono bullizzate e derise non c’è lo spazio morale né fisico per crescere ma solo per tirare a campare come si può.
Eppure sarebbero tante e semplici le azioni concrete da poter mettere in atto per rilanciare la città da tutti i punti di vista.
La storia, la cultura, la bellezza, le particolarità non ci mancano e purtroppo abbiamo però in abbondanza anche teste poco pensanti e miopi, senza visioni e aperture mentali. Ma solo chiusure e arroganze. E infatti la città e il suo degrado sono lì da vedere.
E piange il cuore. Soprattutto a chi in questa città ha investito e continua a farlo, tempo e vita, oltre che denari.
A nulla servono nemmeno le associazioni, che si sono dimenticate di essere figure sindacali a servizio di imprese sempre più in difficoltà ma hanno preferito accettare e assecondare le scelte deleterie del sistema per comodità e tornaconti dei soliti pochi a scapito delle tante attività che rappresentano. Insomma una serie di miserie dalle quali è certamente difficile riprendersi.
Ma poi ci sarebbe davvero la volontà di recuperare il terreno perduto?
Ai posteri l’ardua sentenza.
Intanto fa male al cuore passeggiare in una città sporca, trascurata, piena di attività chiuse e sempre più lenta e incolore.
Dove neanche il violino suonato dal tetto ci consola più.
Buongiorno Prof.ssa Ferrari, raccolgo con delicatezza la sua – ineccepibile e corretta – provocazione. Quel bottone mancante non è un semplice complemento della asola in cui di solito dovrebbe essere accomodato, ma è il pezzo di un puzzle o parte di un castello di carte. Per creare un puzzle serve tempo, pazienza, colpo d’occhio ma soprattutto persone che sappiano vedere l’opera ben oltre la fotografia di una scatola, devi saper investire voglia e capacità fino a quando il progetto non arriva a compimento. Il gatto domestico, un colpo di vento o il piccolo nipote pestifero possono rovinare il lavoro, coscientemente o meno, costringendoti a dover ripartire da zero. Per creare un puzzle serio servono pezzi ben definiti, un cervello che sappia guardare avanti e che faccia buon uso della storia dei pezzi precedenti che non si accordavano con l’insieme ma che diventano fondamentali in corso d’opera, altrimenti meglio lasciare perdere e dedicarsi ad altro senza rovinare il lavoro di tutti quei piccoli “pezzi” (ma perfettamente pensanti e razionali) che formano il tessuto commerciale urbano. In base al cervello che deve gestire il lavoro sul tavolo apparirà una bellissima riproduzione di qualche opera d’arte o l’insieme, sconnesso, di piccole parti buttate in maniera casuale che imbruttiscono l’arredamento di un soggiorno. L’alternativa è il bottone all’interno del castello di carte, per definizione estemporaneo, delicato e sovente distrutto anche da un piccolo starnuto senza le scorribande del nipote. Quel bottone è il pezzo di un castello che viene proposto come inespugnabile e stupendo ma che, alla fine dei conti, altro non è che la somma del lavoro di progettisti poco capaci o disinteressati a dare una forma ottimale all’opera. Quando i puzzle vengono bene investi denaro, tempo e capacità nel lavoro, quando ciò che ti circonda è un castello di carte sei molto meno interessato ad investire in qualsiasi cosa, lasciando un soggiorno in disordine e poco vivibile.