Verso la fine degli anni ’50 del secolo scorso, le strade erano quasi deserte nei dintorni di Cremona. Percorrendole, s’incrociava qualche carro agricolo, qualche bicicletta o la grossa berlina del facoltoso agricoltore che si recava in città al mercato o al bar Giardino. L’occhio prendeva d’infilata quelle strisce bianche che contornavano il verde dei campi e la roggia che scorreva di fianco, nel cui alveo passava la corrente d’acqua soltanto durante i giorni destinati all’irrigazione dei terreni restando asciutto per il resto dell’anno.
Umberto, ottenuto il diploma di ragioniere, nell’incertezza se iscriversi o no all’Università, dava una mano nell’azienda agricola di famiglia e spesso, a cavallo dell’ora di pranzo quando l’attività si fermava, si divertiva a guidare all’impazzata lungo quelle strade senza traffico la macchina che suo padre aveva acquistato, una Fiat 1100/103 grigia. Entrava nelle cascine in cui era conosciuto a forte velocità, inanellava qualche giro sul cemento dell’aia facendo stridere le gomme, usciva dal portone senza neppure fermarsi a salutare e puntava su un’altra azienda di conoscenti, dove si ripeteva il copione. Appagava così, al volante, la sua vanità. Ritornava a casa dopo un’oretta con il motore fumante.
Durante l’ennesima scorribanda automobilistica all’interno di un cascinale, sul portone della casa padronale, Rosa, la figlia ventenne dell’agricoltore, che conosceva fin dalle elementari, lo salutò con un cenno. Si fermò frenando fragorosamente e invitò la ragazza a fare un giretto. Da qualche tempo Umberto aveva messo gli occhi su quella bruna, occhi neri e labbra carnose senza mai decidersi a farglielo sapere. Era l’occasione per far scaturire la scintilla di un amore nascente.
Il giretto divenne abitudine e il tradizionale cerimoniale amoroso ebbe inizio. Prima con un bacio, poi con qualche timido passaggio manuale su aree del corpo, all’epoca vietato dalla convenzione sociale e soprattutto dalla religione, che imponeva alle ragazze di arrivare illibate al matrimonio. E Rosa imbevuta di perbenismo, non soltanto non cedeva un centimetro di pelle oltre il lecito, ma non voleva neppure che la gente del paese si accorgesse dell’intesa tra i due. Decise di diradare gli incontri, ma espresse il desiderio di vedere un film. S’incontrarono in città, davanti al Supercinema, dove proiettavano una delle tante repliche di “Via col Vento”. Quel locale sembrava fatto su misura per favorire effusioni amorose tra fidanzati sulle poltroncine dell’interminabile e buia galleria, che all’inizio delle proiezioni, nei giorni feriali, era quasi vuota. Di quella pellicola videro ben pochi fotogrammi, impegnati in snervanti baci di lunga durata e in carezze confuse, sempre bloccate al limitare della zona proibita.
Nel primo pomeriggio di una domenica d’estate, la Fiat 1100/103 grigia entrò in cascina e si fermò sull’aia, davanti alla casa padronale. Dal portone uscì la ragazza e, come d’accordo, salì in macchina. Dopo un paio di chilometri scesero dall’auto in aperta campagna e, per ripararsi dal sole bollente, sedettero all’ombra di un gelso, su di un mucchietto di paglia dimenticato durante la mietitura del frumento. I baci divennero più appassionati e Rosa sembrava non opporsi ai tentativi di un pic-nic sul luogo di nascita della stirpe umana, ma fu presa dall’ansia che qualcuno, a quell’ora in giro per i campi, potesse vedere. Improvvisamente, impose lo stop alle operazioni erotiche e Umberto dovette riavviare la macchina. Giunti quasi alla chiesa, lei volle proseguire a piedi per non far nascere sospetti nella gente vedendoli arrivare insieme. Per strade diverse raggiunsero la parrocchiale, accaldati, per partecipare alla funzione pomeridiana della domenica. Il prete cantava in latino e lo si doveva ascoltare in silenzio. Lei fingeva indifferenza tenendo incollati gli occhi al messale, ma un raggio di sole, insinuandosi dall’alta finestra dietro l’altare, un complice pezzetto di paglia nei capelli le faceva brillare.
Sperangelo Bandera