Direi molto pericolosa. Due angeli mi hanno salvato e sono marito e moglie. Due angeli in carne e ossa possono farsi male tirando su per una montagna un ex atleta, ora verso la novantina, acciaccato e senza allenamento da molti anni? Sicuramente tutti e tre siamo stati in serio pericolo di caduta ma la fortuna è stata dalla nostra parte e nessuno si è fatto male.
Ho tormentato tanto l’amico e sono così riuscito a farmi portare al paese dove sono nato, Monterosso al Mare delle Cinque Terre ma soprattutto salire al Semaforo, stazione di avvistamento nella seconda guerra mondiale, con annesso Eremo di S. Antonio. Dal livello del mare si sale due chilometri e 300 metri, quindi pendenza media 15 gradi ma con punte del 30-40 e tutto su sterrato spesso scivoloso e con gradoni alti sino a mezzo metro.
Partiamo presto al mattino da Cremona, sosta di rito in cima alla Cisa per il caffè, poi il tuffo verso Monterosso ma con imperdibile sosta al Santuario della Madonna di Soviore, uno dei più venerati della Liguria. Breve visita al ristorante dove dovremmo pranzare, ma intanto è venuto un po’ tardi e tutto diventa complicato. Per fortuna ora si arriva in macchina a mezza costa e resta quindi da scalare solo un chilometro. Il mio vecchio percorso di allenamento non esiste più e quindi mi ritengo ancora il migliore quando salivo in 14 minuti. Ma da questo momento incomincia il pianto greco. Procediamo con estrema lentezza, sempre in equilibrio precario, tirato e spinto ma la vetta non arriva mai: sembra essere fuggita via lasciandomi solo con la mia follia.
L’amico che mi tira mi chiede spesso quanto bisogna ancora salire e io rispondo mentendo che ci siamo quasi. Ma questo quasi non arriva mai e qualcuno dal basso ci chiama e ci invita a tornare indietro. Non è possibile. Finalmente ecco l’Eremo. Sono più che stremato. Devo sedermi ma la vista è meravigliosa. Le Cinque Terre sotto di noi, dette l’ultimo Paradiso d’Europa prima che arrivasse la strada carrozzabile, fine del ’54, e verso Genova la vista libera sino a Portofino e verso La Spezia. Ecco invece Portovenere, l’Isola della Palmaria e l’isolotto del Tino.
Abbiamo impiegato a salire un’ora e mezza anziché i 7 minuti di quand’ero ragazzo. Ora bisogna scendere e il mio amico è dubbioso di farcela. Come scendere? Io rispondo come siamo saliti. Scendiamo un po’ più veloci, si fa per dire, in 50 minuti. Io ho i crampi e arrivati al parcheggio, dove una volta c’era il campo di calcio, mando via gli angeli a prendere almeno un panino, ormai siamo ben oltre le tre del pomeriggio e la cucina ovviamente è chiusa. Disastro totale.
Mi consolo con la bella vista dei miei campi di allenamento. Tutto il grande parco di villa Montale per la velocità e Punta Mesco e Soviore, stessa pendenza ma 3 chilometri in 23 minuti, per incrementare la potenza e fare fiato. Per forza dobbiamo ripassare davanti al Santuario di Soviore ed è proprio nel breve rettilineo che costeggia la chiesa che rabbiosa ci supera una bellissima Ferrari, tipo 488, presentata al Salone di Ginevra del ’15, velocità massima 330 km\h. La Ferrari era rimasta dietro la nostra macchina per una decina di chilometri, impossibile passare, strada stretta e una curva dietro l’altra. Il mio amico è ottimo pilota e ho sentito muto il suo commento: bravo il pilota Ferrari ma datemi una Ferrari e vedremo…
Chiudo con le considerazioni del grande filosofo David Hume: tutto è percezione, nulla è fuori dalla percezione.
Sono d’accordo, sono stremato ma sono felice. Ma la percezione giusta era allora, oppure ora ma probabilmente nessuna delle due. Infatti se dico che mento sempre, mento ancora o dico la verità? Non lo so, ma so che ora con un chilometro asfaltato si può salire in 12 e forse anche 11 minuti. Però bisogna essere atleti di livello mondiale.
Pietro De Franchi