Al bar Colomba il caffè era buonissimo e le leccornie un’infinità. Poco distante dall’università, era frequentato dalla gente più disparata: impiegati e studenti, pensionati e casalinghe. C’erano i saltuari e i frequenti, gli avventori di passaggio e gli affezionati. Achille Fardella era tra questi. Elegante, distinto. Cappotto di cachemire in inverno, completi di lino in estate. Camicia bianca e un papillon, sempre diverso. Ogni mattina, alle nove in punto, prendeva il bastone, usciva da casa e salutava il portiere; girava a destra verso il giornalaio, poi a sinistra verso il fornaio, quindi rientrava. Il mercoledì, però, era il giorno del giro lungo. Dopo l’acquisto del quotidiano proseguiva diritto verso il bar Colomba. Non aveva bisogno di ordinare. Nando, il titolare, sapeva già: caffè e fagottino alle mele. Una parola solo per ringraziare, poi tornava a casa. Il portiere lo salutava nuovamente, ossequioso, abituato a quell’uomo solitario e taciturno.
Ma non era stato sempre così. Prima, era diverso. Non prima della pensione. Prima, quando c’era sua moglie. Erano stati giovani, felici. Avevano girato il mondo e le era stato accanto, devoto, sino alla morte. Non ricordava più quando se ne era andata. Risposarsi? Mai avuto l’intenzione: l’idea di addormentarsi con un’altra donna accanto, essere disturbato dal suo rigirarsi sotto le lenzuola e, al risveglio, i capelli scomposti, la bocca impastata a biascicare un buongiorno… No. Amava la sua solitaria quiete.
Aveva spinto la porta a vetri del bar e un vociare chiassoso l’aveva investito. I tavoli erano occupati. Tutti, meno uno. Il suo. «Buongiorno professore!». Non sapeva perché il titolare lo chiamasse professore. Forse per il linguaggio forbito? Per il giornale sottobraccio? Correggerlo adesso sarebbe stato quantomeno tardivo; appurarlo, inutile. Ma non gli dispiaceva.
Si era diretto al solito posto, aveva posato il bastone, tolto il soprabito e aperto il giornale.
«Ecco, professore. Caffè lungo come piace a lei e fagottino ancora tiepido».
«Grazie Nando». Erano le prime parole che pronunciava, a parte il saluto doveroso al portiere.
Una ragazza dai capelli rossi parlava a voce troppo alta. Due accompagnatori pendevano dalle sue labbra; una terza ascoltava distratta, dando ogni tanto uno sguardo al barista. Poi, alzato un braccio: «Nando appena puoi, per favore… quattro caffè!».
«Il mio macchiato!» aveva urlato la rossa. E aveva ripreso il discorso interrotto.
Achille la conosceva. Era una saltuaria.
«Chissà se fosse adatta… e disposta…» aveva pensato osservandola. Gli piaceva quella sicurezza, qualità che lui non possedeva, ma non sopportava l’aggressività con la quale si accaparrava la scena.
Aveva spostato l’attenzione sull’amica. L’aveva vista spesso: beveva il caffè, studiava e scriveva, senza farsi notare.
«Potrebbe essere la persona giusta. Capace di mantenere un segreto». Doveva appurare qualcosa di più su di lei.
«Nando, ma quella signorina…».
«Ah, una ragazza d’oro! Frequenta l’università, giurisprudenza. Gli altri sono colleghi, ma si vede che con lei hanno poco da spartire».
Lo aveva ringraziato, fingendo indifferenza.
Mentre raccoglieva bastone, cappotto e giornale aveva riflettuto sulle sue mosse. Incamminandosi verso l’uscita, aveva agito. Fingendo un movimento maldestro, aveva dato una leggera gomitata alla ragazza.
«Oh mi scusi!» si era subito giustificato.
«Ma… di cosa…» la ragazza aveva preso un tovagliolo e strofinato la manica del maglione; poi, accennando un sorriso: «Non è successo nulla. Solo una macchiolina. Neanche si vede».
«Sono desolato. Il suo caffè! Gliene ordino un altro e la prossima volta sarà mia ospite, va bene?».
«Oh! Ma… Okay, grazie» aveva risposto, imbarazzata.
Achille era soddisfatto: aveva approcciato la fanciulla e concordato un mezzo appuntamento. Il resto sarebbe stato più facile. Da quando le aveva parlato, pensava solo a come affrontare l’argomento. Era stato colto da una frenesia – di agire, di muoversi, di incontrarla -, per lui nuova. Ne era eccitato ma anche disturbato. Troppi anni erano ormai trascorsi nell’inutile, solitaria ricerca: giornate tutte uguali in cui beveva il suo caffè, osservava il fondo della tazza, pagava e rimandava alla volta seguente, sicuro di farcela da solo. Adesso doveva decidersi, non poteva
perdere altro tempo.
«Dottor Fardella! Oggi è più presto del solito!».
«Mi si è fermato l’orologio… Che ore sono?». Non era vero. Da mezz’ora era pronto per il giro lungo. Aveva macinato chilometri in corridoio.
«Mancano dieci minuti alle nove».
Sfilato l’orologio, uno di quelli meccanici, vecchio quanto lui, aveva finto di regolare le lancette. Gli tremavano le mani. Aveva salutato di fretta il portiere e si era diretto al bar.
La ragazza c’era!
«Buongiorno signorina. Sono in debito con lei…ricorda?». Senza attendere conferma, le si era seduto di fronte.
«Professore buongiorno! Prende il solito?». Nando era basito. In tanti anni quel cliente speciale non aveva mai cambiato tavolo né parlato con nessuno.
«Certamente! E un caffè per la signorina». Poi, rivolto alla ragazza: «Piacere, Achille Fardella». «Francesca Accardo, molto lieta».
Nando aveva portato la consumazione. Achille, mescolando il proprio caffè, cercava le parole giuste.
«Guardi che così graffia la tazzina!»
Tornato alla realtà, aveva notato il sorriso divertito della ragazza e anche una piccola macchia bruna, sul collo.
«Signorina, si è sporcata…».
«Dove? Ah no, è una voglia. Di caffè, dice mia madre».
«Una voglia di caffè», aveva pensato Achille «è un segno!».
«Le vorrei chiedere un favore…».
Francesca lo aveva guardato perplessa.
«Non mi fraintenda, la prego. Devo fare una premessa. Mia moglie amava il caffè. Ora non c’è più».
«Mi spiace».
« Prima di morire mi ha detto che se avessi trovato la luna nel caffè lei sarebbe tornata, e non ci saremmo più lasciati». Achille aveva sospirato.
«La sogno spesso» aveva ripreso «e ogni volta mi chiede a che punto sono… Lei viene spesso qui e io ho bisogno di aiuto. Cercherebbe anche lei, per me, la luna nel caffè?».
Francesca non capiva: aveva dinanzi un malato di mente? Uno che ci provava, nonostante l’età? O uno che credeva nell’arte divinatoria della lettura dei fondi del caffè?
«Allora, accetta?»
«Mi lasci pensare, dottor Fardella».
«Mi chiami Achille. Non sono neanche laureato. A lei posso dirlo!».
«Signor Achille, mi spieghi… cosa c’entra la luna col caffè?».
«La luna deve essere nel caffè! Mia moglie me lo ripete ogni volta che la sogno. La luna deve essere nel caffè. Solo allora ci ritroveremo».
Francesca non era per niente convinta; pur tuttavia, accennando un sorriso, l’aveva rassicurato: «Va bene. Se è così, cercherò anch’io la luna nel caffè e, quando la trovo, glielo dirò».
«No, non basta che me lo dica, dovrò vederla anch’io! L’aiuto che le chiedo è proprio questo. Dovrei venire più spesso, ma faccio fatica…».
Aveva abbassato lo sguardo e aggiunto: « Non credo mi resti molto tempo».
Francesca si era intenerita. «Non dica così, signor Achille! L’aiuterò, ci conti. Ma intanto beviamoci questi e iniziamo la ricerca». E aveva bevuto d’un fiato il proprio caffè, ormai freddo.
«Guardi, guardi adesso!». Achille la incitava a controllare.
Con ostentazione Francesca aveva rigirato la tazzina tra le mani, scrutando il fondo, poi aveva scosso la testa. «Non mi pare di vedere la luna».
«Eh, è difficile. La cerco da anni, ma continuerò! Continueremo, vero Francesca?».
«Sicuramente, e se dovessi trovarla, festeggeremo!».
Si era alzato e aveva raccolto bastone e giornale. Francesca l’aveva seguito con lo sguardo, sino all’uscita. Non aveva neanche mangiato il fagottino. Povero vecchio, non ci sta più con la testa.
Erano passati parecchi mesi nel corso dei quali tanti caffè erano stati consumati, tanti fondi erano stati esaminati. Francesca aveva preso l’abitudine di raggiungerlo al tavolo e scambiare qualche parola. Il professore le raccontava della moglie e dei viaggi con lei, delle ortensie del portiere, della paura di non riuscire a trovare la luna. I colleghi la prendevano in giro quando, finito il caffè, esaminava il fondo della tazzina. Lei sopportava: non potevano capire. Si era affezionata a quell’uomo distinto che consumava il caffè non per il gusto e l’aroma, ma per il fondo, alla ricerca di una luna improbabile. Lui era sempre più ingobbito; lo sguardo desolato col quale ogni volta la salutava, le stringeva il cuore.
La presenza del professore, al bar Colomba, era sempre meno puntuale. Anche quella mattina Francesca lo aveva cercato, invano. I colleghi avevano scelto un tavolo defilato, poggiato gli zaini per terra e aperto i libri; Francesca aveva ordinato il solito e controllato l’ora. Sorseggiando il suo caffè, concentrata sulla materia, aveva gettato un’occhiata distratta al fondo della tazzina. Poi, uno sguardo più attento. Francesca non credeva ai suoi occhi: la falce di luna era lì, nitida, lucente. Era scattata in piedi.
«Nando, dove abita il professore?».
«Non saprei, signorina. Veniva sempre da lì» e con un gesto le aveva indicato la strada di fronte.
«Franci, dove vai?» avevano gridato i colleghi. Francesca era già in strada. Comprava il giornale, poi tirava dritto…Il giornalaio! Devo trovare un’edicola, e da lì una portineria, con le ortensie.
Francesca correva, la tazzina in mano. Ogni tanto rallentava e controllava: la luna era sempre lì. Ecco il giornalaio e svoltato l’angolo, due isolati oltre, un palazzo signorile, una portineria e un piccolo giardino, con le ortensie in piena fioritura.
«Buongiorno, abita qui il professor Fardella?».
«Quarto piano, ultima porta a destra. Suoni, che le apre la badante».
Francesca, imboccate le scale, era giunta al piano trafelata. All’ingresso, un imponente cassettone in ebano. Sul ripiano di marmo la foto sbiadita di una donna giovane, bella. Sembrava darle il benvenuto.
Si era aperta una porta. Un’infermiera era uscita.
Francesca, schivandola, era corsa dentro.
«Professore, l’ho trovata, gliel’ho portata…».
Achille giaceva sereno, le labbra distese in un leggero sorriso.
Sul lenzuolo candido, una macchia di caffè.
Licia Tumminello
3 risposte
Un racconto di fantasia delizioso, raffinato, che sublima un amore eterno, al di là della vita, tra marito e moglie. Si legge d’un fiato.
Brava, complimenti all’autrice.
Bellissima e delicatissima storia. Un racconto d’altri tempi, in cui il sentimento che lega due persone è il vero protagonista. Senza alcuna ricerca di altro, se non il desiderio di vivere un amore puro. Anche oltre la morte.
Mi piace questo racconto di altri tempi, di altre generazioni, di altre persone che credevano nell’amore e dedicavano la loro vita alla persona amata sperando di poterla ritrovare e riamare. Ha suscitato in me reminiscenze del passato e dolcezza nel cuore.
Brava l’autrice così sensibile ed emozionante.