La nonna

12 Agosto 2024

Forse sapeva già che altrove si vola

Mia nonna Alba abitava in un paesino alle porte della città, una frazione fatta di case sospese in mezzo alla campagna. La sua era a ridosso della ferrovia. Dalla cucina che deva sul retro, ogni volta che passava il treno richiamava la mia attenzione e per pochi istanti in cui si consumava l’evento si urlava: “Passa la Vittorina!” Storpiare il nome del treno era un nostro gioco, solo nostro. Dalla finestra della cucina non si vedeva solo il binario, ma anche un orto dove la nonna coltivava fragole buonissime e al crocevia della strada sterrata una santella, meta di piccole passeggiate, piccole Ave Maria, un contatto con il mistero della fede. Era un mondo ristretto fra poche cose. 

Nonna aveva in casa un soprammobile, che è stato per anni il mio sogno, il mio oggetto del desiderio perché non lo potevo toccare se non sotto la sorveglianza di un adulto. Era una pallina di vetro contenente acqua e una minuscola scena mariana: se si scuoteva la palla, una neve candida fluttuava nella sfera per poi depositarsi sul fondo.

Avevo sette anni e quel giorno ero ospite dalla nonna. Mi portavano da lei per distrarla dalla morte di mio nonno, avvenuta qualche mese prima, un lutto che non riusciva a superare. Nonna vestiva sempre di nero: grembiuli di flanella in inverno o cotone in estate, con piccoli giglietti bianchi. Calzava sempre delle babbucce di stoffa. Aveva piedi fragili e malati. Le sue dita erano piene di callosità che se sfioravano le scarpe procuravano dolore, perciò tutte le sue calzature erano aperte davanti. Ogni tanto nonna partiva a piedi, con le sue scarpette inadeguate, per andare in città dalla callista. Ci andava sempre a piedi, percorrendo almeno tre chilometri all’andata e altrettanti al ritorno per curarsi quei piedi ammalorati. Aveva capelli candidi, avvolti sulla nuca in uno chignon. A 74 anni era vecchia, vecchia come le donne di un tempo, che, passata la menopausa, accettavano di essere arrivate al capolinea. Nel caso di Alba in salute: non aveva mai visto un medico, se non il podologo. Era sana come un pesce.

Quel giorno, dicevo, avevo fame, tanta fame. Ancora oggi non me ne spiego il motivo. La nonna cercava di placare il mio desiderio di cibo prima con dei frutti, poi portandomi nella drogheria di fronte a casa. Davanti all’ingresso della sua abitazione c’era un negozietto dimesso, con insegne sbiadite. Mi comprò del prosciutto cotto. Era il più buono che avessi mai mangiato. Profumava di ricreazione a scuola. Con la rosetta di pane era eccezionale. Ma io avevo ancora fame. Nonna era perplessa. Non c’era molto in dispensa se non i frutti dell’orto.

Quel giorno, finito il panino, mi prese dolcemente per mano e mi portò al piano superiore, dove c’erano le stanze da letto. Avevo dormito spesso su quei lettoni con il materasso altissimo, dove era necessario arrampicarsi per poi trovare una posizione confortevole. Erano gli anni ’70. D’inverno si usava ancora il frate per scaldare quei giacigli. D’estate c’era un caldo irreale, ma a sette anni, non ti importa nulla del caldo, del freddo. Io avevo solo fame. Nonna aprì l’armadio, pieno dei suoi vestiti neri, tutti uguali. Ne indicò uno: era uno chemisier in gabardine da cerimonia blu scuro o forse nero, con il colletto e i polsi bianchi in raso. Un abito elegante, con bottoni in madreperla e strass. Me lo mostrò e disse: “Se ti chiederanno che vestito serve, tu mostra questo”. Con l’indice indicò poi delle calze color gesso e un paio di sandali di pelle blu, tacco largo, a rocchetto, quattro centimetri di altezza. Forse sapeva già che altrove si vola. Altrimenti non si spiega questa concessione così frivola e vanitosa ai suoi piedi malandati. 

Improvvisamente si creò un grande via vai nella casa adiacente. Mia zia, che abitava accanto, mi aveva relegato in cucina nella casa della nonna. Io non capivo. Volevo vederla. Le donne stavano in silenzio, ogni tanto si sentiva l’eco di qualche preghiera, un rosario petulante, voci basse, lamentose. Volevo vedere la nonna. Dov’era? Vidi arrivare un uomo alto, con una valigetta nera, che se ne andò poco dopo. Aspettai che uscisse e a gattoni entrai nella sala da pranzo. All’ingresso c’era gente che pregava. Mia zia, una donna piazzata, alta, dai modi ruvidi, occhi grandi verdi, capelli crespi, grigi e grembiulacci da bancarella, mi afferrò per la maglietta, come fa mamma gatta con il piccolo, e mi riportò fuori. Per anni ho pensato che fosse l’emblema della malvagità.

Non ho più visto la nonna. Non ho potuto consigliare il vestito e le scarpe con tacco a rocchetto. Non ho realizzato la sua partenza. Non so con che abito l’abbiano seppellita. Mi hanno tagliata fuori.

Provai di nuovo a entrare in casa, ma zia fu perentoria: “Qui non ci devi stare”.  Mi fermai in cortile. Su quel cemento rovente nonna mi parlava attraverso le sue piante, soprattutto gerani ed essenze grasse. Era creativa in giardino. Aveva un grande talento. Mentre osservavo una portulaca, ne aveva decine di vasi, i fiori gialli erano magnifici, arrivarono i miei genitori che mi riportarono a casa in città. 

Senza urlare e senza piangere, del resto non avevo alcuna idea di che cosa fosse successo, dissi che volevo vedere la nonna. Non mi hanno accontentata.  

Mi chiamo Rachele. Quel giorno ho mangiato come un lupo famelico. Di notte sono stata male, avevo mal di pancia, la nausea e mi sentivo scombussolata. A un certo punto, mentre stavo vomitando, nonna, sono certa fosse lei, mi ha accarezzato il fianco destro. Una brezza leggera e impercettibile. Mi sono sentita toccata da una presenza amorevole e gentile, come se piccole pagliuzze bianche si muovessero nell’aria, mosse dal vento.   

Molti anni dopo, mi hanno spiegato che è morta improvvisamente, mentre ero in cucina nella sua casa a mangiare uva e albicocche con del pane, un pane pistola all’olio, duro come il marmo, seduta davanti alla grande madia di legno dove nonna conservava un numero imprecisato di confezioni vuote di pasta e pastina, con altre carte bianche o marroni di salumeria che accuratamente riciclava. Quella dispensa aveva un fascino incredibile. Ogni volta che l’apriva avrei voluto prendere le carte e disegnare, ma a casa di nonna non si disegnava. Si andava nell’orto, alla santella e a veder passare i treni. Nonna si è sentita male all’improvviso e si è trascinata a casa della zia, è morta sull’ottomana. Zia ha poi curato la regia del funerale, mettendomi in isolamento. Non voleva che vedessi nonna, la maledetta.

Stamattina mentre spolveravo ho preso fra le mani la mia palla di Lourdes.. L’ho agitata. Un nevischio si è sollevato per spargersi intorno e poi riadagiarsi man mano che l’acqua si quietava, lasciando intatta la scena dell’incontro della Madonna con santa Bernardetta. E’ l’unico ricordo tangibile che ho di nonna Alba. La zia, con fare sbrigativo e per nulla empatico, da donna rustica di campagna, ha voluto che fosse mia. Lì dentro c’è anche lo spirito di nonna: una delicata energia cinetica muove i miei ricordi li fa fluttuare nell’aria per poi placarsi piano piano.

Nonna Alba vive dentro una sfera magica, ma la “Vittorina” non passa più. Lei voleva andarsene in modo elegante e c’è riuscita, anche senza chemisier con bottoni di strass.      

 

Francesca Codazzi

8 Responses

  1. È devastante essere tagliati fuori nel momento dell’addio da parenti stretti con cui si è condiviso la vita fino all’ultimo momento. Penso lo fosse stato anche per la nonna.

  2. Bellissimo, commovente… che coincidenza che mia figlia sta dedicando un breve fumetto a sua nonna e in una delle scene che le unisce c’è il.passaggio del treno.
    Che dolcezza il rapporto nonna nipote… lo hai descritto benissimo.

  3. Bellissimo racconto…
    Purtroppo era un’abitudine tanto diffusa quanto malsana quella di celare la morte ai bambini. Io stessa ne ho fatto le spese… e con i miei figli ho cercato di non commettere lo stesso errore (ne ho commessi molti altri…)

  4. Che bel racconto! La poesia delle piccole cose della quotidianità e quella che sa planare su momenti epici della vita, quali la sua fine. Francesca sa esprimere meravigliosamente ciò che la sua sensibilità è in grado di catturare.

  5. Rievocazione significativa della nonna Alba!
    Non hai tralasciato nessun dettaglio. Leggendo mi sono immersa nella casupola di campagna, nell’orto adiacente alla ferrovia.
    É il mondo, in parte, anche della mia infanzia. La vita di paese è sempre stata molto diversa da quella urbana.
    La terra coltivata era la protagonista.
    I suoi abitanti passavano in secondo piano discretamente, come nonna Alba.
    Grazie per aver sfogliato l’album della vita agreste.
    Si percepisce il ricordo amorevole, non scalfito dal tempo, che conservi tuttora.

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