In Lombardia la peste suina mette a nudo un sistema agrozootecnico troppo vulnerabile.
Legambiente: “Occorre concentrare le energie nel contenimento dell’epidemia che sta circolando negli allevamenti. Ma subito dopo occorrerà una energica ristrutturazione di una filiera economica gravemente insostenibile”
L’epidemia di peste suina dilaga negli allevamenti della Lombardia, dove fino ad oggi sono stati individuati 26 allevamenti contaminati, nelle province di Pavia, Milano e Lodi: tanti, troppi, anche rispetto ai 18 focolai riscontrati in tutte le altre regioni italiane.
Evidentemente l’approccio fin qui seguito, ovvero il ‘liberi tutti’ per i cacciatori appassionati di battute al cinghiale, si è dimostrato inefficace: i casi negli allevamenti si moltiplicano, e si espandono dalla provincia di Pavia a quelle confinanti di Milano e Lodi, mentre nei boschi della Lombardia da tempo non si rinvengono, se non molto sporadicamente, carcasse di cinghiali positivi alla PSA, dopo il picco epidemico verificatosi in primavera.
Il cinghiale è, certo, un vettore del virus, e le sue popolazioni devono essere ridotte, con un approccio di corretta gestione faunistica, e non disperse con un’eccessiva pressione venatoria. Ma evidentemente il problema non è nei boschi, bensì nei capannoni e nei recinti degli allevamenti.
“Comprendiamo la preoccupazione delle aziende, adesso è sicuramente il momento di concentrare gli sforzi sul contenimento dell’epidemia – commenta Damiano Di Simine, responsabile scientifico di Legambiente Lombardia -. Con i recenti focolai lodigiani, il virus è ormai a un passo dal divampare nel cuore della grande porcilaia lombarda, con i suoi 4,5 milioni di capi allevati tra le province di Cremona, Brescia e Mantova. Bene l’inasprimento delle misure previste dal Commissario, ma le organizzazioni agricole e della filiera devono concentrarsi su biosicurezza e rigorosissimo controllo degli spostamenti e degli ingressi, oltre che delle possibili contaminazioni accidentali, e non sarà affatto semplice in un territorio con una concentrazione di allevamenti come quello della bassa Lombardia. Anche quello degli indennizzi alle aziende colpite è un tema, ma adesso non è la priorità”.
Siamo infatti in presenza di un virus che ha una grande capacità di resistere nell’ambiente e quindi, sebbene colpisca esclusivamente i suini, sono tante le modalità con le quali può verificarsi una contaminazione, anche laddove siano utilizzati i più rigorosi controlli sugli ingressi di capi, veicoli e persone negli allevamenti: la probabilità che materiale contaminato dal virus venga trasportato da roditori, insetti, uccelli, ma anche acqua e polvere, è tanto più elevata quanto più gli allevamenti sono grandi e vicini tra loro, anche dove i cinghiali non ci sono. Si tratta di rischi che possono essere ridotti con le misure di biosicurezza e di igiene, ma non del tutto eliminati; dunque, questo è l’ultimo momento per agire con il massimo dell’incisività.
“Il dilagare della peste suina è la drammatica cartina al tornasole di un sistema agro-zootecnico insostenibile e, per questo, altamente vulnerabile – conclude Di Simine -. Comunque vada a finire, il modello intensivo degli allevamenti lombardi richiederà una vigorosa ristrutturazione, che deve coinvolgere non solo gli allevatori ma tutti gli attori della filiera, a partire dai consorzi che tutelano le grandi DOP padane. Deve finire la logica della concentrazione produttiva e dell’aumento numerico, che favorisce la creazione di grandi e grandissimi allevamenti di animali nutriti con mangimi di importazione. Bisogna puntare su un deciso indirizzo di valorizzazione qualitativa, includendo tra gli ingredienti dei prodotti lombardi anche il benessere animale e l’equilibrio corretto tra numero di capi allevati e territorio, aumentando la diversificazione produttiva ed agroecologica dell’agricoltura padana”