Ci aspetta un periodo di lacrime e sangue. «Occorre essere uniti». Sollecitata da politici, sindacati, categorie economiche, l’unità è l’antidoto più citato e abusato in periodi di emergenza, oggi diventati quasi normalità. Ogni volta che la palta arriva alla gola e tende a oltrepassarla, l’unità viene invocata e messa in circolo. «Occorre essere uniti», è vessillo e sprone per affrontare la tragedia imminente o già in essere. Per contenerla e superarla. Per evitare di essere soffocati. «Occorre essere uniti», dice tutto e nulla. Semplice e priva di controindicazioni l’espressione è facile ed efficace. Poco esposta alle contestazioni. Chi non condivide il concetto e la necessità di unità, davanti alla possibilità di un disastro collettivo? Chi non approva l’urgenza di riunirsi a coorte, pronti alla morte senza sottilizzare se a chiamare all’unità non sia la patria, ma uno di quei politici demagoghi e banderuola? Nessuno. «Occorre essere uniti», impegna ad anestetizzare momentaneamente convinzioni e interessi personali a favore del bene collettivo. Implica sacrifici e rinunce. Qui però cominciano i distinguo e nasce il problema.
Restrizioni e disagi non sono uguali per tutti. L’emergenza e l’unità per contrastarla non li livella. La differenza di classe non viene annullata. Permane. Se un imperatore porta via al re «un castello dei trentasei che lui ne ha», non produce lo stesso effetto di un cardinale che «porta via al vescovo un’abbazia di trentadue che lui ne ha». È ancora meno uguale, se imperatore, re e vescovo «portano via al contadino la casa, il cascinale, la mucca, il violino, la scatola di kaki, la radio a transistor, i dischi di Little Tony, la moglie, il figlio militare e poi gli ammazzano anche il maiale».
È sbagliato stilare la classifica di chi sia più penalizzato. È sbagliatissimo. È altrettanto insopportabile sentire tromboni da strapazzo, rappresentanti dei ceti garantiti, osannati da media compiacenti, invitare all’unità e nel contempo sollecitare azioni a favore dei propri sostenitori, indifferenti alla cacca che sommerge i compagni di sventura. Però, «occorre stare uniti».
Questa lunga premessa è propedeutica per porre la questione dell’unità più in generale, quella invocata in circostanze normali, meno drammatiche. Non legate a tsunami energetici o di qualsiasi altro tipo. È l’unità sfoggiata per non apparire divisivi e raccogliere applausi a convegni e assemblee. Per acquisire la nomea di lungimiranti e fregiarsi dell’etichetta di progressisti, medaglia oggi inflazionata e un po’ in ombra. È l’unità ipocrita, punto di contatto con i trombettieri dell’emergenza, i perepepè che la invocano per salvare prima le proprie chiappe e poi, se c’è tempo e possibilità, quelle degli altri.
Il mare di parole spese sull’unità del nostro territorio rientra in questa categoria pelosa e sterile. È il paradigma di una presa per i fondelli collettiva. Come la navigabilità del Po. Sostenuta a gran voce da politici, pubblici amministratori, militanti di partito, la provincia unita è materia per favole. Oggi, qui e ora, è un’illusione. È una vergine in un bordello. Ma se vuole sopravvivere come entità autonoma il nostro territorio è costretto a puntare sulla disponibilità di cremonesi, cremaschi e casalaschi a confrontarsi senza il pregiudizio che qualche interlocutore li voglia fottere. Cremonese, Cremasco e Casalasco non sono interconnessi. Entità adiacenti, non comunicano tra loro. Ancor meno, interagiscono. La provincia non è una e trina. È trina e basta. Piaccia o meno, è divisa.
L’Amministrazione provinciale, ente deputato a coordinare le tre monadi, è inadeguata a svolgere il compito. A parole ci prova. Investe anche energie. Il risultato è sterile. Insufficiente. La provincia è molle, evanescente. È caco troppo maturo, zucchero filato. È dente di leone, un soffio e si dissolve. Le cause sono molteplici. Si possono suddividere in tre categorie. Oggettive, derivate dalla nefasta legge Delrio e alla morfologia del territorio, troppo allungato per essere compatto. Specifiche, proprie degli attuali amministratori provinciali, eredi del peccato originale, acquisito con la kafkiana elezione del presidente. Congenite, legate a storia e tradizioni che mai hanno favorito il dialogo tra Cremonese, Cremasco e Casalasco.
L’impegno delle scorse settimane dei sindaci cremaschi per rilanciare l’Area omogenea, da un lato evidenzia un notevole passo avanti per un’aggregazione della Repubblica del Tortello, dall’altro sancisce il tragico distacco da Cremona e Casalmaggiore. L’Area omogenea certifica la disomogeneità del territorio provinciale e introduce un quarto elemento di diversità: la velocità e il ruolo di Crema. Il Cremasco cammina più svelto di Cremona e Casalmaggiore. La vicinanza con Milano, il confronto, lo stimolo, la competizione latente – mai ammessa – con Lodigiano e Trevigliese, lo rendono più reattivo, più attento, più dinamico. Meno ingessato e più esposto allo scontro all’arma bianca tra i suoi amministratori, la Repubblica del Tortello ha trasformato questo svantaggio in risorsa. Ha discusso e litigato. Si è anche spaccata, ma è cresciuta. Ha preso coscienza della propria forza. Se saprà utilizzarla, allora nel medio e lungo periodo lo iato tra Cremasco e il resto della provincia diverrà una voragine incolmabile e l’unità provinciale un’allucinazione. Neppure un sogno.
Il Cremasco ha Consorzio.it. Cremona aveva Lgh e l’ha ceduta ad A2a. Crema preferisce l’autonomia. Cremona la sudditanza. Crema è il riferimento del Cremasco. Ruolo non sempre svolto in maniera condivisibile, è comunque riconosciuto senza tentennamenti o dubbi dai Comuni del circondario. Cremona è piegata su se stessa. Guarda al proprio ombelico. Se la tira. S’interessa ai cavoli propri. Avrà l’ospedale nuovo, il suo. Ma è sola. Non è divisiva, non aggrega. Non dialoga, è onanista. Nave in mezzo al mare, è fuori tempo. E Mantova la punisce. E’ sciocca.
Casalmaggiore è al confine dell’impero. Per i cremaschi è un alieno e non è ancora tempo per unirsi con loro. Un filo di luce viene da Padania Acque, unico organismo provinciale capace di interloquire sull’intero territorio. In attesa che improbabili rose fioriscano rimaniamo divisi. E fermi. Intanto la provincia muore.
Antonio Grassi