Alcuni lettori mi chiedono di narrare gli inizi e gli avvenimenti del periodo della storia cremonese, breve in fondo ma molto importante e così poco conosciuto, che va dal 1796 alla Restaurazione. E’ il periodo che, come già abbiamo ricordato, Ugo Foscolo, molto presente a Cremona in quegli anni (vedremo perché), chiama ‘Rivoluzione d’Italia’ e segna profondamente la storia del nostro Paese, oltre che della nostra città. Tutto comincia con la Rivoluzione Francese (di cui però ora non trattiamo) e con gli entusiasmi che aveva suscitato in gruppi ristretti, un po’ in tutti i Paesi europei. Gruppi ristretti che, a loro volta, erano il frutto di quella cultura illuministica diffusa, in forme diverse, nel corso dell’intero XVIII secolo in quasi tutta Europa. Vengo, dunque, subito a ciò che ci interessa in questa sede.
Nel 1796 Napoleone Bonaparte, ancora solo giovane e brillante generale, alla testa di un esercito francese, invade l’Italia. Il suo progetto aveva poco da spartire con gli ideali della Rivoluzione e tanto meno con le idee giacobine. Aveva una valenza prevalentemente militare e tattica. Il Direttorio, che comandava in Francia dopo la sconfitta di Robespierre e dei suoi seguaci, aveva concordato con l’ambizioso generale còrso di portare la guerra in Italia per liberare i confini sud-orientali della Francia da una possibile invasione austro-piemontese e per impossessarsi delle ricchezze italiane, al fine di rimpinguare le casse dello Stato e finanziare la guerra. Tutto desiderava, il Direttorio, meno che la presenza di Stati ‘giacobini’ al confine della Francia. E, a dire il vero, nemmeno l’aveva messo in conto! Ma a volte la storia agisce per vie sue, imperscrutabili se non ai posteri. E così, mentre le vittorie di Napoleone allontanavano dalla Francia il pericolo austriaco e portavano al saccheggio delle ricchezze italiane (con pregiudizio anche del consenso popolare nei confronti del nuovo potere!), provocarono pure un entusiasmo non previsto in una parte non del tutto insignificante della popolazione. In diversi posti Napoleone ed i francesi vennero accolti come liberatori. Non fu mai la massa dei contadini o dei poveri nelle città, e neppure i nobili, a vederli così. Ma intellettuali, commercianti, artigiani, una parte del clero, assunsero atteggiamenti che dimostrano come le idee sui ‘diritti’ diffuse dall’Illuminismo avessero fatto presa nel corso del tempo. Napoleone, sorpreso lui pure, adottò per alcuni anni un atteggiamento ambiguo, di volta in volta favorendo i giacobini o contrastandoli, illudendo gli italiani circa il rispetto dei principi di indipendenza e nazionalità o schierandosi contro, secondo l’opportunità della ‘partita a scacchi’ per il potere che stava giocando con il Direttorio. Gioco su più tavoli che continuò, in modo assai più contenuto, anche dopo il colpo di stato che portò Napoleone a console a vita e poi imperatore. Napoleone dunque suscitò un sentimento di identità nazionale in un Paese che sembrava esserne privo. Non possiamo qui seguire le vicende delle Repubbliche cispadana, cisalpina, romana, partenopea, italiana. Possiamo solo ricordare che nei primi anni i movimenti democratici ebbero maggiore libertà d’azione e che, con il passare del tempo, prevalsero nelle autorità francesi atteggiamenti repressivi delle posizioni più avanzate. Ricordiamo anche, per onore del vero, che queste posizioni più avanzate (anti assolutismo, libertà, diritti, maggiore eguaglianza anche sociale) erano sostenute prevalentemente da persone colte e ricche, appartenenti ad ambienti che oggi definiremmo alto-borghesi. In alcuni casi (a Milano, a Napoli) appartenenti anche a settori della nobiltà (a Cremona il patriziato fu sempre, con pochissime eccezioni, reazionario ed austriacante). L’identificazione fra ricchi e giacobini, più vera in Italia che in Francia, rendeva facile la propaganda contro chi diceva di parlare in nome del popolo per abbattere le vecchie istituzioni.
Comunque, con tutti i loro limiti, i giacobini settentrionali, in particolare quelli lombardi, sono davvero da annoverare fra i primi patrioti italiani. Tentarono di fare della Repubblica cisalpina e poi italiana il nucleo fondante di un futuro Stato nazionale. Questa esperienza, cui Cremona diede un grande contributo, è stata offuscata agli occhi dei posteri da vari fattori: il fatto anzitutto che sia durata poco tempo e che poi la Repubblica si sia trasformata nel Regno napoleonico; che protagonisti siano stati i giacobini, o presunti tali, che non godevano di buona fama presso le masse (ricchi, anticlericali, sprezzanti…); che sia stata infine instaurata dalle baionette dei francesi, predatori soprattutto all’inizio di tante nostre ricchezze. E pensare che nulla dispiaceva ai francesi come una Repubblica italiana autonoma, tendente ad unificare la penisola! Abbiamo documenti da cui risulta come le autorità francesi fossero molto preoccupate da quel che stava accadendo in Italia e tentassero di agire per spingere la situazione in direzione di un sostanziale conservatorismo sociale (riuscendoci!). Ai francesi, insomma, le Repubbliche italiane piacevano finché restavano sottomesse all’autorità della Francia, tranquille e senza ‘colpi di testa’ egualitaristici; non piacevano e bisognava bloccarle se ambivano ad unificare il Paese in un unico Stato, forte abbastanza da far da contrasto alla Francia, per di più da posizioni richiamanti gli iniziali ideali rivoluzionari.
La storia della Rivoluzione d’Italia fu dunque breve e contrastata, ma ricca di episodi eroici (di tradimenti, anche, certo: la storia, ieri come oggi, in città come in campagna, è fatta di venduti e comprati, oltre che per fortuna di uomini e donne dalla schiena dritta!). Lasciò un patrimonio di idee e di valori alle generazioni future, la cui incidenza nella Rivoluzione patriottica che portò all’Unità ancora non è stata indagata, né a livello locale né a livello nazionale. Voglio dire che il nostro Risorgimento deve molto, più di quanto si creda, alla Rivoluzione giacobina italiana. Tanto per fare un esempio, io credo che il permanere a lungo fra i nostri patrioti, sia moderati che democratici, di un sentimento nazionale non offensivo nei confronti delle altre nazionalità, sia un lascito di quella esperienza.
Le vittorie di Napoleone e la trasformazione della Repubblica d’Italia in Regno rappresentarono la svolta moderata della Rivoluzione italiana. Ma anche la svolta moderata lasciò tracce nella storia del nostro Paese e del suo gruppo dirigente. L’idea di Roma città universale, non più perché sede del Papato ma perché città della scienza e della modernità e capitale di uno Stato sovrano, nasce da lì. L’abolizione della feudalità, anche nel centro e nel sud, venne confermata ed anzi accentuata dal potere napoleonico. Murat poi, l’ultimo dei napoleonidi ed il primo sovrano italiano autonomo, con il proclama di Rimini del 1815 (redatto dall’illustre giurista ed economista Pellegrino Rossi) ai ‘popoli italiani’, pose le basi del movimento nazionale successivo.
Qualunque sia il giudizio conclusivo che si vuol dare sul regime napoleonico, gli storici concordano su alcuni punti, almeno per quanto attiene all’Italia. Sono stati introdotti comportamenti e stili politici che possiamo definire liberali e che saranno un punto di partenza dal 1848 in poi, quando le condizioni porranno di nuovo all’ordine del giorno la possibilità di dar vita ad istituzioni ispirate a principi di libertà. Pensiamo alla trasparenza e pubblicità dei bilanci pubblici, che oggi sembra un risultato scontato ma che l’ancien régime non prevedeva affatto! Altro dato positivo del periodo napoleonico in Italia, da tutti gli storici riconosciuto, è rappresentato dal consistente potenziamento del sistema scolastico pubblico, con l’introduzione dei licei e di una diffusa scuola elementare, e di una rete capillare di uffici pubblici (uffici postali, caserme ecc.) oltre che di norme innovative per tutto ciò che attiene la vita civile (anagrafe, matrimoni, funerali, sevizi sociali), con la formazione di una moderna burocrazia. Positiva fu anche l’introduzione di tariffe doganali protezionistiche (il protezionismo è utile, in presenza di una industria debole ed agli inizi) per tutelare i prodotti industriali ed artigianali locali, soprattutto tessili. E positive furono le riforme in agricoltura, con le modifiche del sistema degli affitti e della mezzadria, riforme tese ad introdurre più moderne modalità di conduzione delle aziende e rapporti di proprietà non feudali. Tutti questi interventi, dall’economia alla vita civile, dall’istruzione all’amministrazione, vennero condotti in tutto il territorio della penisola. Con un tratto unitario, intendo dire, pur con gli inevitabili adattamenti e le differenze. Ciò è importantissimo, perché se una linea omogenea fosse stata seguita anche dopo, soprattutto dopo l’Unità, senza prevaricare e dimenticare le differenze, probabilmente la ‘questione meridionale’ non avrebbe assunto la drammaticità che invece assunse. Gli storici concordano anche nel valutare i limiti dell’esperienza napoleonica in Italia. A partire dal pesante tributo di sangue che le continue guerre imperiali richiedevano e dalla leva obbligatoria (o semi obbligatoria), odiatissima sempre dal mondo contadino. Ma anche il carattere elitario e borghese di molte riforme contribuisce a spiegare il mancato consenso e quindi, in parte almeno, la sconfitta. Voglio dire che certe trasformazioni sociali non furono spinte fino in fondo, che certe clamorose ingiustizie sociali rimasero, anche per le paure dei francesi; e ciò tolse credibilità e consenso ai patrioti italiani.
A Cremona non fu diversamente. La città seguì le sorti del Paese, ma quei vent’anni furono determinanti anche per la nostra storia. Le vicende ed i protagonisti di quel periodo non possono essere così brutalmente dimenticati come lo sono stati. E’ giusto invece togliere dall’oblio storie e persone che meritano di essere ricordate. Lo faremo in prossime occasioni.
3. Continua