di Nicola Arrigoni
Labor artis non è solo il titolo del percorso espositivo che vede dialogare le opere di Paola Moglia e Vanni Donzelli, ma è il risuonare di lavoro, abilità nel fare, creare, produrre. Nel gioco dei richiami terminologici l’accostare labor e ars è come sottolineare il concetto che la creatività abbisogna di lavoro, fatica, impegno, ma anche tensione verso un’idea che trova concretezza nell’atto creativo, nel dipingere come nel modellare la creta. In questo senso Labor artis concede la possibilità – da cogliere al volo – di aprirci al senso dei due lemmi, di leggere le due parole come una professione di poetica del fare. Ed ancora è il linguaggio – casa dell’essere – a stupire e suggestionare. Nell’accostare Labor artis a una poetica dell’arte si scomoda un’altra etimologia: le parole «poetica» e «poesia» derivano dal verbo poieo, che in greco significa fare, inventare, creare. E di nuovo siamo nel campo del fare.
Parole, parole, parole.
La parola lavoro indica «in senso lato, qualsiasi esplicazione di energia (umana, animale, meccanica) volta a un fine determinato quello compiuto dai muscoli dell’organismo umano e animale nell’esplicazione delle funzioni loro proprie. Più comunemente il termine lavoro fa riferimento all’applicazione delle facoltà fisiche e intellettuali dell’uomo rivolta direttamente e coscientemente alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale». Non si può non dimenticare che lavoro deriva dal latino labor che significava «pena», «sforzo», «fatica», «sofferenza», aspetti non secondari che portano a opporre il lavoro, il negotium all’otium, ovvero il tempo libero dalla fatica del lavoro, laddove nel concetto di ozio sia nel mondo greco che nel mondo romano non è esclusa la fatica fisica, purchè si tratti di esercizi ginnici o marziali e di lavoro-non lavoro e cioè di attività intellettuali quali lo scrivere, la politica, le arti. Passando alla parola arte, ars/artis – arte «sembra derivi dalla radice ariana ar- che in sanscrito significa andare verso, ed in senso traslato, adattare, fare, produrre. Questa radice la ritroviamo nel latino ars, artis. Originariamente, quindi la parola arte aveva un’accezione pratica nel senso di abilità in un’attività produttiva, la capacità di fare armonicamente, in maniera adatta». Dunque in senso lato l’arte esprime «la capacità di agire e di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche». Dopotutto la parola arte è spesso accompagnata da un complemento specificativo che indica la specificità dell’arte: del medico, come del fabbro, richiamandosi ai mestieri che richiedono pratica manuale e tendono alla fabbricazione di oggetti utili. E ancora «in senso più ristretto (e più comune), si chiama arte un prodotto o un insieme di prodotti culturali a cui viene riconosciuto un valore estetico, creato attraverso linee, forme, colori, suoni o parole. Classificato, a seconda dei casi, come pittura, scultura, architettura, poesia, musica e così via. Arte è, in aggiunta, ogni mestiere che richieda ingegno e abilità tecnica e l’insieme delle regole necessarie a svolgere un’attività o una disciplina».
I due vocaboli esprimono la tensione ad agire per produrre un bene, in un certo qual modo stanno a significare il muoversi perché la realtà intorno a noi muti, magari in nostro favore, venga per così dire forzata, proceda verso la nostra utilità, ma attraverso il lavoro che costa fatica, richiede impegno e tempo. Piace l’idea che nel termine arte ci sia la radice di un movimento, di un avvicinarsi a qualcosa o qualcuno ed in fondo è questa prossimità con l’altro che va cercando l’arte, intesa come attività di espressione creativa del sé, esternata attraverso l’atto creativo verso un destinatario altro. C’è da chiedersi se ci sia arte senza un destinatario, se si possa parlare di processo artistico, se questo pro-cedere non incontra lo sguardo dell’altro. Da qui lo snodo che porta dal laboratorio dell’arte alla mostra, all’esposizione di ciò che si è prodotto e fatto in cerca di una prossimità possibile, in una comune «corrispondenza di amorosi sensi». Ecco due altre parole: laboratorio e mostra che compartecipano al Labor artis che fa dialogare Paola Moglia con Vanni Donzelli, la pittura materica di Moglia con le creazioni in terracotta di Donzelli che assurgono all’assolutezza della statuaria.
In laboratorio
Alcuni quadri accatastati, una lastra d’acciaio, alcuni barattoli di colore, materiali che come tasselli di un puzzle sono destinati a comporre i quadri polimaterici di Paola Moglia. Il laboratorio – uno dei laboratori di creazione – è nei locali annessi al negozio di hair stylist di Moglia, l’arte che coincide nello spazio col lavoro, l’arte che coesiste con la professione, l’arte che insiste nel quotidiano, in cerca di uno suo spazio festivo del fare e del creare. Ed anche in questa commistione di labor, lavoro e materiali c’è il senso dell’arte di Paola Moglia, ovvero l’andare verso qualcosa o qualcuno, sia questo il materiale nuovo con cui si misura: acciaio, foglie, colori, plexiglass, o verso qualcuno: lo spettatore nel tempo e spazio del mostrare e di-mostrare. E così al di là di una precoce vocazione alle arti grafico/pittoriche coltivata con passione nell’infanzia, Moglia persegue la sua propensione alla creatività artistica con itinerari formativi coerenti e arricchenti. Frequenta dopo la maturità artistica la Scuola Internazionale di Grafica Incisoria a Venezia e, in seguito, la Scuola Politecnica di Design di Milano, sotto la guida di Bruno Munari. Ciò che aiuta a inquadrare l’agire e la prospettiva che sposta l’oggettualità nella soggettività di Moglia è accennare alla professione di art director presso alcune agenzie pubblicitarie del calibro di DMB & D di Milano con clienti quali FIAT e Surgela, della Compagnia dell’Immagine gruppo Timberland di Milano con prodotti e accessori Timberland, Clarks, Costumi Catalina e abbigliamento e l’Agenzia New Time di Bologna all’interno della quale Moglia ha curato l’immagine di alcuni importanti clienti come Grigio Perla, Credito Romagnolo, Hatu-Ico profilattici, Zueg, Mandarina-Duck, Les Copains. Ed in questo mix di esperienze lavorative (è ancora il labor che fa capolino), matura la vocazione artistica di Moglia che è un andare verso nuove possibilità di espressione e di realizzazione, che vive nella volontà di avviare un dialogo non solo con chi viene a vedere i suoi quadri, ma anche con altre esperienze creative. È questo il caso della mostra Essere Tempo Materia, condivisa con Brunivo Buttarelli, e ovviamente di Labor artis in cui la condivisione con i manufatti di Vanni Donzelli si accresce dell’apporto musicale performativo di Fabio Turchetti. Per questo il laboratorio di Paola Moglia è accumulo di materiali, spazio occupato dalla materia in cui prende forma la voglia di creare, di rimodellare acciaio, plastiche, colori in una sorta di tutto unico volto a liberare l’espressione di sé.
Del tutto differente è lo spazio di lavoro di Vanni Donzelli, un laboratorio nei pressi della sua abitazione, immerso nella campagna, nella piccola frazione di Livrasco. C’è nell’austerità del luogo una sorta di concentrazione indotta, nulla porta Vanni Donzelli a distrarsi dal suo fare. I pani di argilla e di gres, le vernici, i materiali sono in bella vista, i forni accesi cuociono vasi dalle forme allungate. Su vassoi – come se si trattasse di pane – riposano alcune tazzine appena modellate, l’arte di Donzelli passa attraverso il quotidiano, passa nei complementi di arredo come nelle composizioni di vasi che sembrano arrivare da tempi lontani, strizzare l’occhio all’Etruria, piuttosto che alla Magna Grecia. Suggestioni di un passato mitico nella quiete invernale di una campagna di abbagliante luminosità. Quando Vanni Donzelli parla dei suoi forni: «questo l’ho fatto io», dice, sembra una sorta di bambino nei paesi dei balocchi. Il calore del fuoco fa da contrasto all’umido della creta ancora da lavorare, intorno vasi di tutte le fogge, sculture che paiono provenire da mondi lontani, che assomigliano a menhir, ma potrebbero essere omaggi discreti a Burri piuttosto – in certi cromatismi – che a Rothko che ha deciso di dare forma materica alle sue campiture monocromatiche. Fragili e concrete al tempo stesso, le creature di gres – «è un materiale molto resistente e che offre possibilità di sperimentare molto ampie e poi in lavastoviglie non si danneggia», afferma Donzelli – sono guardiani silenziosi di un lavoro che si plasma fra le dita, che prende forma con dolcezza e costanza, con piccoli gesti e un uso abbondante di acqua che permette di sagomare quella terra generosa e duttile. A questo approccio esperienziale, laboratoriale, di ricerca del fare e disfare per individuare la forma giusta corrisponde anche il profilo biografico dell’artista che «scopre autonomamente l’argilla spinto dal profondo desiderio di manipolare, modificandola, la materia. Concretizzare forme che dalla mente si sviluppino nello spazio dà origine alla sua personale ricerca formale. Sembra nato col la terra fra le mani, ma è dal 1997 che matura la decisione di percorrere la strada della conoscenza ceramica approcciandosi all’uso dei vari impasti e tecniche, spingendosi nella ricerca di terre (i gres) non comuni nella tradizione italiana. Costruisce i forni con cui cuoce le proprie opere cercando di scoprire la forza che trasforma la materia attraverso la cottura (…) Approfondisce la propria conoscenza tecnica grazie ai contatti con ceramisti del calibro internazionale di Giovanni Cimatti, Jan Currie, Peter Beard, Daphne Corregan, Rafa Perez».
Chiesa, museo e mostra
Labor artis trova casa nel museo archeologico San Lorenzo. Sono ancora le parole a condurre il pensiero che indaga l’agire artistico e creativo di Paola Moglia e Vanni Donzelli. Il museo archeologico San Lorenzo ha sede nell’antica omonima chiesa fondata nel 990 d. C. dal vescovo Oderico. Le architetture ecclesiastiche coesistono con l’allestimento museale in un dialogo tanto suggestivo quanto carico di storia e che induce a capire come chiesa e museo conversino, anche dal punto di vista lessicale.
Ecclesia nell’antica Grecia stava ad indicare l’assemblea popolare che si riuniva periodicamente per discutere i problemi cittadini. Etimologicamente il termine ecclesia significa: chiamare da, la stessa chiamata che i discepoli ricevono da Cristo quando nel giorno di Pentecoste, riuniti in assemblea su di loro scende lo spirito santo e da qui parte la missione di evangelizzazione del mondo. «Il termine ‘museo’ deriva dalla voce greca museion che indicava l’istituzione culturale pubblica creata da Tolomeo I Sotere ad Alessandria d’Egitto nel secolo III a. C., in stretta correlazione con la celebre biblioteca: un luogo di riunione e di studio per letterati e scienziati filosofi, tra le cui funzioni non è certo – anche se assai probabile – vi fosse anche quello di raccogliere ed esporre opere d’arte». E’ da qui che parte l’avventura del museo come luogo di cultura e di conservazione, ma anche collezione di oggetti rari e alla fine spazio pubblico a cui affidare la divulgazione dell’identità culturale di una società, di una comunità.
I due termini vivono di una interconnessione di spazio e finalità, sono luoghi aperti alla comunità, luoghi in cui raccogliersi e in cui riconoscersi, nella chiesa alla ricerca di Dio e nel museo affamati di bellezza. Paradossalmente le opere conservate nelle chiese – persa la loro funzione devozionale – sono state trasferite nei musei, oppure le chiese sono state musealizzate con tanto di biglietto di ingresso quando lo stare in chiesa non è dettato da un’esigenza devozionale. In questo senso il museo San Lorenzo coniuga la doppia natura dello spazio in cui si sviluppa e coniuga una tendenza laica: raccogliere la memoria della comunità, attraverso i segni che arrivano da un passato lontano, brandelli di memoria ricomposti in una narrazione che disvela le origini del nostro essere comunità che si riconosce nel suo passato e nella sua storia e che per questo necessita di conservarla e di tornarvi, anche solo per compiacersi del percorso storico che l’ha portata fin qui. Ed ecco che la musealizzazione delle chiese o l’utilizzo di San Lorenzo come museo chiamano in causa non solo la conservazione dei beni museali, ma anche la loro esposizione. Mostrare reperti, opere d’arte a qualcuno: è lo sguardo dell’altro che compie e conclude la chiamata a raccolta della comunità in chiesa come nel museo, è lo sguardo rivolto all’altare del credente, rivolto all’opera d’arte del visitatore museale che chiede di partecipare alla visione, partecipare insieme. In questo rito laico si compiono lo stupore e il dialogo del visitatore con l’opera d’arte, un dialogo intimo e potente, un racconto che vive dell’opera in sé, come del contesto in cui è inserita e delle iniziative ad essa connessa.
Moglia e Donzelli in dialogo
Labor artis di Moglia/Donzelli cerca di incoraggiare questo dialogo, che è un dialogo interno fra i due artisti, un dialogo con lo spazio e con il tempo, ma anche con lo spettatore/visitatore. Le opere di Moglia fanno della materia il mezzo che porta alla visione di paesaggi cromatici in cui foglie, stracci gessati vengono fermati nel tempo e nello spazio, mentre l’acciaio diventa materiale duttile per architetture metalliche che vogliono raccontare la plasticità argentea di un creare materico. Il colore è patina del tempo, è materia che ribolle, è un invito tattile che rende insufficiente lo sguardo. Nelle opere in mostra – che percorrono le ultime fasi della produzione della pittrice – persiste l’idea di un ritrovamento, di un’emersione da un magma indistinto che bloccato sulla tela diventa rivelatore, reperto di tempi lontani. Per questo il dialogo con i reperti conservati nel museo archeologico si fa intenso e immagina un’archeologia dell’oggi, immagina che quelle opere pittoriche siano tasselli di un passato che emerge nel gesto pittorico dell’artista. Non è un caso che quanto esposto in San Lorenzo appartenga – nella stragrande parte – a una sorta di quotidiano, rubato agli insulti del tempo: ci sono vasi di uso domestico, ci sono essenze e semi conservati dopo millenni, utensili da toeletta, brandelli di una quotidianità che emerge dall’oceano dei secoli. Ed è questo immergersi nel qui ed ora di duemila anni fa che trasforma le opere di Moglia a loro volta in lasciti materici di un passato reinventato dalla mano contemporanea dell’artista. E se le opere in bianco che coprono foglie e materiali arborei o tessili sembrano riportare a certi calchi fossili, la cosa si fa più evidente ed esplicita nelle conchiglie che sembrano provenire da un tempo lontano, sembrano fossili marini ritrovati imprigionati nella materia rocciosa. I lavori in acciaio sembrano, invece, strizzare l’occhio all’homo faber, ovvero alla capacità tecnica di piegare il materiale ai propri bisogni. Questa fatica del lavorare il metallo si coglie nei reperti conservati nelle vetrinette del museo, come nei quadri d’acciaio di Moglia che, quando parla di questa sua ultima produzione, mette avanti lo stupore di chi è riuscito a domare un materiale indomabile. E di questo stupore rilucono le opere di Moglia, destinate a illuminare il ferro antracite che caratterizza l’allestimento museale dell’archeologico. A questo dialogo col contesto si affianca quello che i singoli lavori riescono a costruire con lo spettatore/visitatore che vive una irrefrenabile voglia di toccare quei quadri, quasi a voler scalzare la distinzione netta che separa opera pittorica da quella scultorea. Tutto questo rappresenta un’esperienza sensoriale interessante, immersa nello spazio senza tempo del museo: luogo della conservazione e della condivisione di un passato che ci appartiene.
Dal passato e in armonia con l’andamento antico eppure modernissimo di San Lorenzo sembrano emergere le bottiglie e i vasi policromi di Vanni Donzelli. Le forme sono allungate o tonde, prevale una pulitezza del tratto che s’intreccia con la matericità del gres, i cromatismi sono effetto di sapienti cotture, di intrecci di materiali, di smalti colorati e adeguatamente testati alle incandescenti temperature dei forni. Le bottiglie allungate vivono di una innaturale tensione verso l’alto che le rende creature solitarie protese verso l’infinito, mentre i vasi più bassi e tondeggianti recuperano le forme pulite di alcuni vasellami del Neolitico, riviste in chiave contemporanea con cromatismi naturali affidati ai diversi impasti, o regolati dalla mano dell’artista. Nei lavori in terracotta e gres di Vanni Donzelli si percepisce – nella loro fragile immobilità e anche non immediata utilità – una sorta di ponte con ciò che è stato, con l’antica arte dei vasai che racconta di un uomo faber che sa costruire utensili e usarli e in ciò si distingue dall’animale. La suggestione regalata dalle opere di Vanni Donzelli forse sta proprio in questo: nella possibilità attraverso il loro stare di metterci in contatto con un fare millenario, con le mani che plasmano la creta e forse le mani di Dio stesso che dalla creta plasmò l’uomo. E dopotutto Vanni Donzelli «tocca e ritocca ogni singolo pezzo, creando con esso un dialogo profondo e ancestrale. La superficie viene tagliata, tornita, graffiata, coperta di smalti o lasciata ruvida o opaca. Le geometrie evocano forme antiche, ma sono nella loro essenzialità forme pure della contemporaneità. Le opere, molto diverse tra loro seppure in sincronia cromatica, dialogano con i reperti e assieme a essi ci raccontano una storia che ci parla di civis e civiltà». Questa è forse la chiave di lettura che riporta al titolo della mostra Labor artis, ovvero un percorso che è volto a raccontare il lavoro, la fatica dell’uomo – da sempre – di plasmare la materia, di dominare lo spazio che vive, di usare le risorse messe a disposizione dalla natura per proteggersi, per costruire un mondo a lui non ostile, per dominare il proprio simile, ma anche per esaltare la bellezza e la spiritualità del fare artistico, del costruire facendo, del mestiere antico di plasmare la creta, sulle orme del Dio creatore dell’uomo. Peccato di ubris? Non si direbbe, incontrando lo sguardo ceruleo di Vanni Donzelli la cui pacatezza e gentilezza nei modi si trasfonde nella placida natura delle sue opere che ristanno nel loro comporsi a gruppi di bottiglie o di vasi e nelle sculture monolitiche e graffiate da bianca porcellana raccontano di tempi lontani, recuperano e assommano eredità dell’antica arte del modellare la creta. Ed ecco ancora arte e lavoro, fatica e creazione dell’ingegno tattile si intrecciano.
Sfregar e pizzichi di corde: intrecci musicali
In tema di intrecci, il dialogo fra i quadri di Moglia e i vasi di Donzelli trova un suggestivo legame nella musica di Fabio Turchetti, coopartecipe del progetto, musicista e performer che ha fatto della mescolanza dei generi e delle tradizioni musicali un proprio tratto distintivo. La musica gioca dunque un ruolo in opposizione alla materia delle opere in mostra, ma in questo procedere per contrasti non mancano le similitudini, ovvero la potenza della musica di parlare all’emozione, la capacità della musica di raccontare storie e tradizioni, la necessità della musica di far coesistere chi suona e chi ascolta e ancora la consapevolezza che l’intangibile musica nasce dallo strofinare le corde di un violino, nasce dal pizzico di una chitarra, nasce dal pigiare il tasto di una fisarmonica piuttosto che di un pianoforte, nasce dal soffiare in un sax … E sono ancora il gesto, il fare, la fatica dell’esercizio, la tensione dei muscoli, lo scorrere delle dita sulla tastiera come sul tornio del vasaio o sulla tela del pittore ad essere protagonisti del lavoro artistico, della fatica del creare. Suonare tutti i giorni, dipingere quotidianamente, modellare la creta con costanza e determinazione: l’esercizio dell’arte è un lavoro, è un mestiere che si costruisce pian piano in cui talento e opera, creatività e costanza coesistono in un procedere che nel fare e nel saper levare va in cerca dell’inatteso che solo la vera arte può regalare. In questo senso Labor artis è il lavoro, l’azione e la dedizione di artisti in cerca dell’inatteso che l’anima stupisca e che fi faccia dire con Faust: «Attimo fermati, sei bello».