Ennio e Anita sposi, 01.02. 2010.
Avevano scelto quella data perché era un numero palindromo.
«Ci porterà fortuna» aveva detto Anita.
«La mia fortuna è stata incontrarti» aveva risposto Ennio, tenendola stretta a sé.
Era successo un pomeriggio di novembre, in un supermercato all’ora di chiusura. Condizione per niente romantica, eppure si erano guardati, avevano scambiato poche parole e fatto insieme gli ultimi acquisti; poi, fianco a fianco, erano usciti dal locale. A vederli potevano sembrare marito e moglie, ma non si erano nemmeno presentati. Lui l’aveva accompagnata alla macchina portandole le buste della spesa, lei gli aveva detto «a buon rendere» e, d’istinto, proposto un appuntamento per sdebitarsi.
Si era stupita di se stessa, cosa le stava succedendo? Quando qualche anno prima aveva lasciato la Puglia, si era imposta di stare lontano dagli uomini, di non sbagliare più.
A Ennio questa intraprendenza aveva dato fastidio. Alquanto tradizionalista, considerava l’approccio un “ruolo” maschile, non gli mancavano le amicizie intime e non era solito confidarsi con una donna. Pur tuttavia aveva accettato, conquistato dagli occhi di Anita: grandi e sempre come piacevolmente sorpresi, sia che guardassero un cespo di lattuga, sia che leggessero l’apporto calorico di un prodotto. Uno sguardo stupito – Ennio lo capì quando ebbe modo di conoscerla meglio –, che Anita mostrava anche davanti a un piatto di polenta e brasato, o dinanzi a un airone cinerino fermo lungo la sponda del fiume.
Quel vezzo di sollevare le sopracciglia e sbarrare gli occhi, ereditato dalla madre, le si era accentuato giungendo al nord con due valigie, la macchina ancora da finire di pagare e un cuore che era un puzzle da mille pezzi, tutto da ricostruire.
Un appuntamento dopo l’altro, giorno dopo giorno, con pazienza e costanza si scrutavano, si esaminavano, imparavano a conoscersi.
Antonio, amico d’infanzia di Ennio, chiedeva divertito e incredulo: «Ancora non ci sei andato a letto?». Ma Ennio temeva di rovinare tutto per troppa fretta, trascurava le altre amicizie e si dedicava sempre di più ad Anita.
«Mi sembra una relazione d’altri tempi» commentava Frida, collega di Anita, la quale scuoteva il capo e non rispondeva. Che cosa poteva saperne, la collega, di lei?
Anita alternava momenti di spontanea vivacità con periodi in cui si chiudeva in se stessa, distante e pensosa; Ennio aveva ripreso le sue intime frequentazioni, anche se con la testa – e il cuore – si ritrovava spesso da tutt’altra parte.
Per mesi non andarono oltre i messaggi quotidiani, il buongiorno e la buonanotte, intercalati da interminabili tragitti in macchina, foto ai tramonti e pause caffè al limite della tolleranza. Poi, pian piano, il piacere del buon cibo e delle gite fuori porta sciolsero i rispettivi iceberg: macinando chilometri, visitando paesini sconosciuti e sperimentando la cucina dei ristoranti sparsi nel raggio di un’ora di distanza dalla loro città, Ennio vinse la ritrosia di Anita e questa scalfì la sua introversione.
«Devo confessarti una mia paura» esordì un giorno Anita dopo aver ordinato un piatto di marubini ai tre brodi, cavallo di battaglia di una trattoria del Cremonese.
Lui, allungando il braccio sul tavolo, posò la sua mano su quella di lei, senza dire nulla. In attesa.
«Ho paura a… toccarti» sussurrò Anita, e con occhi di stupore, guardando la propria mano inerte sotto quella di Ennio, inghiottì e riprese: «Per me toccarti è un punto di arrivo, il traguardo di un lungo percorso fatto di parole, ascolto, comprensione. Le tappe non so quante saranno ancora, ma mi ci devi accompagnare e nello stesso tempo lasciare che io ci arrivi, da sola, senza forzature». L’aveva detto tutto d’un fiato e adesso si sentiva come nuda di fronte a lui.
Ennio non allontanò la sua mano. Anita girò il polso; una scarica elettrica attraversò i palmi giungendo alle dita, che s’intrecciarono. E iniziarono il viaggio.
La strada fu tanta e il percorso, lungo. Le abitudini non cambiarono molto, ma adesso erano carrozze sullo stesso binario. Avevano i loro “luoghi del cuore”: lungo l’Adda facevano lunghe passeggiate; le valli bergamasche erano il punto di riferimento per visitare borghi suggestivi e locali tipici; Milano offriva cinema e teatri.
Il puzzle si ricomponeva, il cuore si ammorbidiva come un biscotto nel latte e le ore trascorse insieme parevano sempre troppo poche.
Una domenica di dicembre, durante una visita guidata al castello di Soncino, Anita, tirando Ennio per la manica del giubbotto, gli chiese: «Vuoi conoscere i miei?».
Lui la guardò, trasecolato.
«Vuoi?» insistette Anita con gli occhi sgranati.
«Certo, ma solo se mi baci» rispose Ennio ritrovando le parole.
Lei gli buttò le braccia al collo e si scambiarono il primo, vero bacio.
Non tornarono alle rispettive case, quella sera. Organizzarono un fine settimana in Puglia e, nel giro di un mese, andarono a vivere insieme.
L’anno dopo, il matrimonio in un’abbazia del ‘400 e il viaggio di nozze a Procida.
I figli non vennero ma Ennio e Anita non se ne fecero un cruccio: loro si bastavano. Affermavano che nulla e nessuno avrebbe potuto intaccare la loro unione. Si completavano a vicenda come il lampo e il tuono, la pizza e la birra, la tavolozza e i pennelli.
Entrambi avvocati avrebbero potuto lavorare insieme, ma Anita non aveva voluto: «Meglio che ognuno abbia i suoi spazi, la propria autonomia». Ennio andava a Milano tutte le mattine; Anita lavorava – per poche ore al giorno – presso uno studio associato a due isolati da casa, e le piaceva scrivere. Era la sua grande passione.
Il lavoro di Ennio, con gli anni, divenne sempre più intenso; i suoi giorni a Milano sempre più lunghi. Anita invece collaborava sempre meno e scriveva tanto: poesie, principalmente, ma anche favole. Qualche pubblicazione le aveva dato soddisfazione. Ogni giovedì, in biblioteca, teneva letture animate per bambini. Lei ed Ennio non girovagavano più: la sera lui aveva voglia di godersi la loro casa e Anita, che in casa vi trascorreva già molto tempo, accettava senza contraddirlo.
Il venerdì però cenavano al ristorante: pesce. Anita non lo comprava mai perché, diceva Ennio, “a cucinarlo puzza”, così avevano preso l’abitudine di mangiarlo fuori. Era anche un modo di tornare ai vecchi tempi, ritrovare abitudini non dimenticate ma, forse, superate. Comunque passate. Alternavano tre o quattro locali per non essere metodici – Ennio odiava le abitudini – ma anche per un’inconfessata nostalgia del tempo e del modo in cui si erano conosciuti: girovagando in macchina, ascoltando musica e intanto chiacchierando.
Quella sera erano giunti al “Pepe Verde” senza quasi scambiare parola. Si erano seduti al solito tavolo, accanto alla finestra che dava sul cortile. Anita aveva posato la borsa sul davanzale; Ennio aveva estratto il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni, l’aveva posato sul tavolo e, preso il tovagliolo, se l’era poggiato sulle gambe.
«Cosa prendi?».
Anita lo guardò sbattendo le palpebre. Ennio si corresse: «Che pesce, intendo».
«Qui prendo sempre il merluzzo in umido con la polenta» disse Anita. «Lo sai anche tu, vero?» aggiunse rivolta alla cameriera, giunta per l’ordinazione.
Questa sorrise e annuì. Ennio ordinò fritto misto e un calice di bianco poi, alzatosi di scatto, prese il telefonino e se lo rimise in tasca. «Vado a lavare le mani».
Anita, con i suoi occhi di stupore che negli anni non erano cambiati, lo seguì lungo tutta la sala e quando, giunto in fondo, lo vide girare a destra e scomparire dietro l’angolo, prese il cellulare dalla borsa e controllò, sulla chat di whatsapp, il numero di telefono di Ennio. Era “online”. Non ne rimase sorpresa, anzi, ci avrebbe giurato. Cronometrò la durata della connessione: poco meno di quaranta secondi, trascorsi i quali fece scivolare il cellulare in borsa, rimettendo subito dopo i gomiti sul tavolo. Giusto in tempo: Ennio, rientrando dalla toilette, la osservava.
Anita aveva il viso rivolto verso la finestra e il profilo di sempre.
Lui non le chiese cosa stesse osservando e lei del resto non se lo aspettava. Il suo stupore si perdeva tra le foglie di un albero, situato in un’aiuola al centro del cortile.
Quattro anni prima in quell’aiuola era stato piantato un piccolo ulivo. Circondato da piantine di begonie, campeggiava fiero, lasciando che a ogni folata di vento la sua giovane chioma si accendesse di riflessi argentati.
«Peccato che non possa durare. Non è clima, questo, per l’ulivo» aveva detto Anita, che gli ulivi li conosceva bene.
«Sei pessimista».
«Scommettiamo?».
Ennio aveva raccolto la sfida e ogni volta che pranzavano in quel locale, attraversando il cortile, rimarcava la sua vittoria.
L’anno precedente le aveva dato una gomitata soddisfatta, indicando quattro minuscole olive verdi tra le foglie sparute di un ramo.
Quest’anno non si era accorto che l’ulivo era stato sostituito da una magnolia.
Nell’uscire dal locale, mano nella mano, Anita rivolse un muto saluto al cortile. «L’amore è passato da qui» disse tra sé, soffermandosi a guardare il nuovo albero.
Non c’era più stupore nei suoi occhi ma una lacrima trattenuta, e un velo di malinconica consapevolezza.
Licia Tumminello
10 risposte
Stupendo per delicatezza e capacità di fare vivere emozioni a chi legge.
Lascia emozioni sulla pelle e nel cuore. Scritto con semplicità lascia trasparire la provata sensibilità dell’autrice.
Racconto gradevole emozionante e con un finale che lascia col fiato sospeso…
Racconto coinvolgente,fa sognare ad occhi aperti anche se lascia una scia di malinconia.
Lettura piacevole e coinvolgente.
Viene espresso con sensibilità come i sentimenti si adeguano allo scorrere della vita.
Delicato come un soffio di vento. Avvolgente come la coperta della nonna. Si legge tutto d’un fiato.
Brava, con la consueta accortezza e delicatezza descrivi lo svolgersi di una bella storia d’amore… che, alla fine, lascia posto alla malinconia.
Delicato e coinvolgente che ti prende fino alla fine tutto di un fiato
Lettura scorrevole.
Una storia piacevole da leggere.