L’attentato a Ranucci colpisce l’informazione libera, scheggia impazzita del giornalismo

18 Ottobre 2025

Il vile attentato ai danni del giornalista e conduttore di “Report” Sigfrido Ranucci è un segnale che trascende il fatto in sé. E non c’è espressione di solidarietà – per quanto non scontata e mai inutile – che possa far passare in secondo piano ciò che quell’atto rappresenta.

E’ forse inevitabile correre con la memoria ai tanti, troppi, precedenti, ma sarebbe semplicistico ridurre quanto avvenuto liquidandolo come la conseguenza di un modus di intendere e praticare l’informazione. L’informazione vera, che assolve pienamente al suo compito di “cane da guardia del potere”.

Ci piaccia o meno l’uomo, Sigfrido, ci piaccia o meno il suo lavoro, frutto del suo modo d’interpretare la professione, quello che è avvenuto nella notte di venerdì è un monito per tutti noi.

E’ la spia di un crescente clima d’intolleranza e al tempo stesso un indicatore del superamento del livello di guardia del livore che permea ormai una società che ha superato la sua fase “liquida”, per dirla con Baumann, e si sta rapidamente incanalando nell’alveo “gassoso” dell’imbarbarimento.

Non c’è giudizio di merito politico in ciò che scrivo. C’è, piuttosto, la constatazione di un drammatico decadimento delle regole di convivenza sociale che ci riporta, idealmente, a periodi bui della storia di questo Paese.

Ranucci, e con lui i tanti giornalisti che ancora onorano questa professione duramente provata dall’incedere della tecnologia e dalle piattaforme “social” dove chiunque può ergersi a opinionista dell’ultima ora, rappresentano un baluardo del libero pensiero.

Il giornalismo d’inchiesta è divenuto, paradossalmente, una scheggia impazzita del sistema. Una scheggia che va controllata, messa a tacere, silenziata, intimidita. Perché nel grande silenzio che contraddistingue questo periodo storico in cui, come in un gioco di specchi, troppe voci si affastellano sino a creare un immenso vuoto di contenuti, un vuoto comunicativo, la libertà di pensiero e la libertà di informazione sono divenute più che mai pericolose. Insidiose.

Chi tocca i fili muore. Se va bene, viene intimidito. Chi esce dal sistema – chi cerca di costruire o mostrare un sistema alternativo – va silenziato. Poiché lo status quo non ammette il dissenso.

Vecchia storia, vecchia come il mondo eppure attualissima.

Per questo l’attentato ai danni di Ranucci è un monito a una società silente, assuefatta alla violenza e al sopruso. Una società nella quale vigono “regole” che hanno scalzato le precedenti, guadagnate con tempo e fatica. Una società nella quale il libero confronto è tollerato solo nella misura in cui assume i connotati della reciproca offesa sul piano personale.

E allora, nulla quaestio se l’insulto, la diffamazione, l’ingiuria sono i nuovi strumenti del confronto, ma guai a trascenderli concentrandosi sui fatti. Facendo inchiesta. Lavorando esponendosi, mettendoci non solo la firma, ma anche la faccia. Facendolo pacatamente ma con fermezza.

Perché sono i fatti, la calma frutto di un lungo lavoro preparatorio a far paura. Non gli insulti, le reazioni di pancia. E’ quel sorriso beffardo indossato a commento della notizia a segnalare il pericolo, non il ghigno feroce del cane che abbaia ma non morde.

Ranucci, da anni, sistematicamente morde il sistema. Lo fa con con stile, con la (relativa) serenità di chi sta assolvendo al nobile compito di fare informazione.

Per questo Ranucci è pericoloso. Perché è come quei “tre giornali ostili” che Napoleone Bonaparte temeva più di “centomila baionette”.

E’ la stampa, bellezza, verrebbe da dire parafrasando il Bogart de “L’ultima minaccia”. Solo che oggi la stampa ha perso credibilità. Inseguendo i social, inseguendo il “click”, lo scandalo facile, la notizia innocua che genera al massimo il “flame” o la “shitstorm” sui social media, la stampa ha, in larga parte, abdicato al suo ruolo primario. E lo ha fatto nel momento peggiore. Nel momento in cui con maggiore urgenza si avvertiva la necessità di un presidio stabile, fermo e irremovibile in grado di contrastare la proliferazione di false notizia e l’avverarsi della profezia di Umberto Eco.

Lo ha fatto, lo sta facendo, in un contesto storico (un ricorso storico, in verità) nel quale le ombre si allungano e la luce si affievolisce. Un periodo storico e sociale in cui cresce la rabbia, lo scontento, il malessere generale, alimentato e pasciuto dal peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone e famiglie. Condizioni economiche e sociali che mostrano tutti i limiti del sistema consumistico che abbiamo cullato e cresciuto in grembo per decenni.

E laddove aumentano le difficoltà quotidiane, laddove lo Stato non arriva a sopperire e supportare, fermenta l’humus dell’odio. Monta la rabbia sociale. Si rafforza l’individualismo; non quello sano, non quella limitata componente individualistica necessaria al raggiungimento della personale realizzazione. Si rafforza l’individualismo dell’uno contro tutti, del tutti contro l’uno.

Si crea il substrato che induce al sonno della ragione che a sua volta genera mostri. Terrorismo, mafia, autoritarismo, germogliano da questo humus. Lo hanno sempre fatto. E’ la storia a ricordarcelo, anche se siamo troppo indaffarati a guardare altrove, a fissare uno schermo chiudendoci nelle nostre personali bolle sociali architettate da un algoritmo.

Per tutto questo l’attentato a Ranucci, voce libera e pensiero indipendente, ci tocca tutti. Tocca chi ne apprezza il lavoro, ma tocca anche chi non apprezza la persona, le sue idee e il suo operato. Perché quell’attentato è un segnale ma anche un simbolo. L’effige del mostro che rialza la testa. Alza il livello dello scontro, alimenta quella rabbia sociale che cova ormai a cielo aperto, altro che sotto la brace.

E quanto è accaduto deve indurci a pensare. A ri-pensare il nostro modello societario prima che sia troppo tardi.

Poiché oggi è stato colpito un uomo libero, ma sul tavolo non c’è soltanto la sua di libertà: c’è quella di ciascuno di noi.

 

Federico Centenari

cremonalibera.it

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