GLI EDITORIALI DI ADA FERRARI
E’ sempre motivo di orgoglio parlare, da cremonese e a Cremona, di uno dei grandi concittadini che il territorio ha regalato alla storia nazionale in quella fase, fra seconda metà dell’800 e prima metà del ‘900, in cui siamo stati un laboratorio politico sociale di eccezionale vivacità. Che dire pertanto del più smorto presente? Che forse ci stiamo ancora riposando. A Stefano Jacini (1826-1891) si è dedicato un recente incontro, promosso dalla Regione Lombardia e dal Centro Studi Gioberti, cui ho avuto il piacere di intervenire al fianco del collega docente Stefano Galli, dell’Università degli Studi di Milano. Senonché il tema, a prima vista un classico repertorio accademico, rivela aspetti di provocatoria e insospettata attualità. Attualità tanto più evidente se all’esperienza di Stefano Jacini senior, senatore del Regno e promotore della celebre Inchiesta del 1877 sulle condizioni dell’Agricoltura in Italia. si accosta quella dell’omonimo nipote (1886-1952) attivamente presente in tutti i grandi snodi politici della prima metà del ‘900: Partito Popolare di Sturzo, antifascismo, Resistenza, governo Parri, Assemblea Costituente, Democrazia Cristiana.
Nativo di Casalbuttano era Jacini senior, milanese di nascita fu invece il nipote, tuttavia palesemente portatore di dna cremonese in quanto innamorato dell’agricoltura, studioso della sua storia e interprete politicamente attivo dei suoi bisogni. Fu appunto Stefano Jacini junior, sensibile alla grandezza del celebre nonno, a raccontarne la vita in una biografia dal titolo tanto esplicito quanto provocatorio:“Un conservatore rurale’. E in quelle due parole non c’è solo una prospettiva politica ed economico sociale ma tutto un mondo culturale e morale: l’universo dei valori perimetrati dalla parola conservazione. Non ignoro ovviamente quanto suoni ‘eversivo’ anche il solo evocarla, viste le ferree procedure selettive di un pensiero dominante che pare ormai riconoscere solo a stesso diritto di cittadinanza nel mondo contemporaneo, riducendo ogni diversa visione a oscurantismo, a ignoranza, all’egoismo sociale di chi sposa la conservazione al solo scopo di conservare i propri privilegi. Di tutt’altra pasta e levatura fu invece il ‘conservatorismo rurale’ dei due Jacini a dimostrazione che madre natura ha ugualmente distribuito intelligenza e ottusità sia fra i rivoluzionari che fra i conservatori.
Parlerei dunque di una rara specie di conservatorismo dinamico, che tenendosi alla larga sia dalla sirena reazionaria sia dalla palude dell’immobilismo, si può riassumere in un coerente costume intellettuale: il rifiuto di accedere all’idea che il nuovo, per il solo fatto d’essere nuovo, sia sempre e comunque meglio di quel che c’era prima. Banale sciocchezza che è stata, è, e continuerà ad essere fertile madre di altre infinte banalità e irreparabili errori. Una volta assunta questa prospettiva, la storia riserva parecchie sorprese, e può capitare di registrare nella biografia dei cosiddetti conservatori colpi d’ala e di genialità politico sociale autenticamente ‘rivoluzionari’. Parecchio rivoluzionario fu, per esempio, imporre alla classe politica degli anni ’70 dell’ottocento l’urgenza di un’inchiesta sulle condizioni dell’agricoltura e delle classi rurali. Coraggiosa controtendenza rispetto alla consolidata pratica di uno Stato ben lieto di intascare l’enorme gettito che l’economia agricola gli assicurava ma refrattario all’elementare scrupolo di conoscerne le reali e problematiche condizioni. Tasto tuttora dolente, quello dell’agricoltura, visti i trattori recentemente in marcia su Bruxelles e nelle capitali europee a gridare il disagio di un mondo che, tradizionalmente lontano dai riflettori, di quando in quando improvvisamente riemerge col suo carico di difficoltà, di rabbia e sudore.
La storia, ovviamente, non si fa coi ‘se’ ma forse se ancora disponessimo sia a livello nazionale che comunitario di qualche Jacini che veda nella cultura, cioè nella conoscenza dei problemi su cui intervenire, l’indispensabile premessa dell’azione politica, il confronto fra un vitale settore produttivo e la controparte istituzionale non sarebbe giunto a questa asprezza. A fronte di queste premesse, appare francamente difficile imparentare il ruralismo lungimirante di Jacini al sonnolento culto dell’immobilità che nel secondo dopoguerra indusse gli agricoltori cremonesi, eterni arbitri dei destini locali, a declinare l’eccezionale offerta del Rettore milanese dell’Università. Cattolica, padre Gemelli, per la creazione a Cremona della nuova Facoltà di Agraria. Per poi, poco dopo, accogliere una raffineria petrolifera che avrebbe irreparabilmente disastrato terra, acqua e aria.
Analoga rivendicazione di discontinuità, tornando a Jacini senior, fu il progetto elaborato nel 1870 con Ponza di San Martino per una coraggiosa smobilitazione dell’assetto centralistico dello Stato unitario in direzione autonomistica e regionalista. Progetto destinato a rimanere tale, tant’è che l’interessato ne concluse che parlare di autonomie locali nell’Italia del tempo era come sventolare un drappo rosso davanti a un toro. Né miglior sorte toccò al nipote che, scomparendo nel 1952, non vide l’esito di quel titolo V della Costituzione della quale era stato coartefice.
Ma, per concludere: se l’obiettivo del conservatorismo jaciniano non riguardava l’immobilità dei rapporti sociali, cos’altro riguardava? Riguardava la conservazione dei valori. Quei valori di antico radicamento – frugalità, capacità di fatica, severa concezione del vivere, solidità del tessuto famigliare – specificamente custoditi nel tradizionale assetto agricolo patriarcale. Il che diventava ulteriore motivo per bilanciare più cautamente il rapporto fra l’economia agraria e uno sviluppo industriale fatalmente destinato a stravolgere i precedenti costumi con l’avvento di stili ben più materialistici e consumistici.
Riavvicinare la parabola umana, culturale e politica dei due Jacini significa dunque confrontarsi con l’ipotesi di un differente modello di sviluppo. Modello indubbiamente perdente. Ma se è vero che la storia la scrivono i vincitori, altrettanto vero è che spesso è proprio la parabola dei perdenti a offrirci i più interessanti elementi di riflessione.
Ada Ferrari