Con quell’aria da garbato intellettuale della rive gauche, ingrigito nei capelli ma non nel cuore, Enrico Letta è rientrato dal prestigioso esilio parigino per accorrere al capezzale di un Pd assai inguaiato. Se quel che farà o gli consentiranno di fare è assai incerto, certo è invece che la Balena bianca ha colpito ancora. Si direbbe anzi che la sua capacità di condizionare la scena politica italiana non è mai stata così pervasiva dai tempi in cui la mitica Democrazia cristiana ha ufficialmente chiuso bottega per consegnarsi al giudizio della storia. Evidentemente era proprio ‘cristiana’ e come tale partecipe del mistero della resurrezione. Resurrezione plurima, si direbbe, che le permette di riemergere ciclicamente e piazzarsi, attraverso eredi diretti e indiretti, nei punti strategicamente vitali della sinistra politica. Del resto De Gasperi stesso, che avendola inventata se ne intendeva, la definiva ‘partito di centro che guarda a sinistra’. E si sa che i difetti visivi col tempo non migliorano, tutt’altro. Tant’è che dalla gavetta democristiana viene l’implacabile guastatore seriale Matteo Renzi. E viene anche Enrico Letta, allievo di Beniamino Andreatta, economista di punta della sinistra dc. Persino Conte, ormai stabilizzato a sinistra e abilitato a resurrezioni multiple in quanto devotissimo di padre Pio, se non è democristiano per tessera, lo è in tutto il resto. Felpato, curiale, perfetto interprete di una consumata arte di risolvere i problemi con tecniche dilatorie di raffinata fattura. Metodo che, all’opposto dell’iperattivo volontarismo fanfaniano, fu una delle due grandi scuole politiche giunte fin qui per lascito scudocrociato. A quale delle due si affidi Letta per averla vinta sulla pietrificata selva di correnti e relativi potentati che paralizza il partito, non è dato sapere. Dichiara di non capirne la ragione e lascia intendere di puntare a uno scioglimento ma ne ha di fatto prudentemente trascritto geografia e rispettivi pesi nella sua segreteria di fresca nomina. Che dire? Che dalla Francia si torna sempre un po’ rivoluzionari, ma basta qualche boccata di aria romana per ricordarsi come va il mondo. Né è d’aiuto la sibillina circolarità d’intenti degli esordi: ‘progressisti nei valori, riformisti nel metodo, radicali nei comportamenti’. Un capolavoro di vaghezza esoterica che, nonostante questo o forse proprio per questo, gli fruttò plaudenti fiumi d’inchiostro, cascate di miele e immancabili amarcord a suon di Guccini, Venditti o Vecchioni in un crescendo di nostalgico giovanilismo che ormai è dato vedere solo a sinistra. E sia detto con umana simpatia e un pizzico d’invidia. Ma l’impresa è dura e i primi indizi paiono preludere a un destino parecchio travagliato. Al netto della luna di miele infatti Letta ancora non ha detto e fatto quel che si attendono da lui gli autentici sostenitori e, per opposte ma ugualmente legittime ragioni, gli autentici avversari: se e come voglia sciogliere l’eterno dilemma identitario che crocifigge il partito fra tentazioni di sinistra radicale e vocazione a un più moderato centrismo. Alla sinistra di Leu ha platealmente regalato l’intempestivo ritorno nell’agenda prioritaria dello jus soli. E il rischio è di riportare indietro l’orologio politico al clima del 2018 e alle condizioni che condussero all’asse Salvini-Di Majo. Quanto alla vocazione più spiccatamente riformista occorre ammettere che l’Italia di oggi non è quella che nel lontano 1995 consentì alla coalizione rosso-rosa dell’Ulivo di decollare e garantire per più di dieci anni la base parlamentare dei governi Prodi, D’Alema e Amato. Adesso Draghi c’è. E incarna nella forma più coerente e potenzialmente attraente un’ipotesi liberaldemocratica che – comunque garantita dal suo nome – potrebbe prender corpo e peso inglobando la galassia riformista: non solo i Renzi, i Calenda, i Toti, gli europeisti e socialisti di varia provenienza ma la stessa Forza Italia. Berlusconi appare ormai apertamente interessato al dialogo in quella direzione e, fatto decisivo, l’interesse pare, con analoga cautela, ricambiato. E dunque? E dunque ecco spiegato perchè il Pd si tenga in caldo i 5 Stelle anche se, a busto più eretto di Zingaretti, Letta ha già messo le mani avanti definendo futuri giochi di ruolo e relative gerarchie: in un’eventuale alleanza il ruolo egemonico toccherà al Pd. Già, ma più facile a dirsi che a farsi. Gramsci che sdoganò la parola a proposito del ruolo storico del partito comunista intendeva per egemonia quella specie di ‘stato di grazia’ culturale e ideologico che consente a una forza politica di ottenere ruolo guida dell’opinione pubblica e dell’elettorato non con la coercizione autoritaria ma con la razionale forza persuasiva di una visione del mondo e di un conseguente progetto politico. Una specie di conquista delle menti e dei cuori. Il Pd attuale dispone di tutto questo? E basta allo scopo dire di voler finalmente ‘fare cose di sinistra’? Nei decenni quell’etichetta ha coperto in Italia il più svariato repertorio: dai girotondi arcobaleno al recente reddito di cittadinanza. Vedremo se la proposta di compartecipazione dei lavoratori agli utili aziendali, presente nella bozza economica Letta che sta girando, sia sorretta da una convincente strategia o sia solo un regaluccio alle inclinazioni antipadronali e anticapitalistiche tuttora vitali in una parte della sinistra e dei 5 Stelle. Ma un partito erede della rigorosa analisi economica marxiana può limitarsi a generici afflati solidaristi e redistributivi sostanzialmente elusivi rispetto ai nodi cruciali della reindustrializzazione del paese e della riorganizzazione dei ruoli produttivi e del mercato del lavoro nell’economia globale? Cosa significa difendere i deboli se non dare lavoro? E come si dà lavoro se non partendo dalla ricostruzione del tessuto produttivo e con esso della ricchezza nazionale?
I secessionisti Calenda e Renzi col piano industria 4.0 o l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori hanno chiaramente detto cosa intendano per ‘fare cose di sinistra’. E la divergenza va al cuore delI’identità stessa di un soggetto politico che storicamente si intesta la difesa dei deboli. Letta è partito tentando di conciliare l’ipotesi ecumenica di ricostruzione di una sinistra ‘larga’ con premesse di assoluto rigorismo: cercare la verità, non l’unanimismo, smantellare la diffusa percezione del Pd come partito di potere e andare, se servirà per rinnovarsi, all’opposizione. Rischia di bruciarsi nel corto circuito delle contraddizioni innescate. Cos’altro infatti è quel restare avvinto ai Pentastellati, contenitori di tutto e del suo contrario, se non una classica operazione di potere suggerita dalla loro forza numerica?
Pur con l’apprezzamento che la statura dell’uomo merita, è concreto il rischio che la montagna partorisca il topolino e che, analogamente ai 5 Stelle con l’operazione Conte, anche l’operazione Letta si riduca a ennesima rinfrescata di facciata: un traslocare irrisolti dilemmi identitari e beghe interne dietro la prestigiosa bandiera di un nuovo leader. L’eterna regola del gattopardo: si cambi tutto affinché tutto resti com’è.