Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde…
(Dante: Inf. XV, 121-122)
Quando i sessant’anni si profilano all’orizzonte può capitare che negli uomini nascano d’improvviso capricci e voglie come accade alle donne incinte; o smarrimenti e impennate ormonali come succede a quelle imenopausa. Si manifestano così dei comportamenti che parrebbero imprudenze, stranezze o colpi di testa, ma che talvolta consentono di realizzare sogni – puri o impuri è solo questione di punti di vista – covati magari per anni senza che si fosse mai trovato prima il coraggio di manifestarli. Lo stimolo impellente nasce dal timore che il sopraggiungere della vecchiaia porti con sé, insieme all’insonnia, non solo i rimpianti, ma anche una sonnolenza diurna che impedirà poi di vivere come si vorrebbe: e allora perché resistere alla tentazione delle ultime occasioni? La carne è debole, soprattutto in simili frangenti, e non si vede perché i preti – anch’essi uomini in carne ed ossa – dovrebbero fare eccezione.
Monsignor Sebastiano Ferri scese a Fiumicino dall’aereo proveniente da Buenos Aires, dove aveva trascorso quattordici anni presso la Nunziatura Apostolica. Non erano stati anni facili, anche se al suo arrivo in Argentina, nel 1983, il presidente Alfonsin stava insediandosi al posto di Reynaldo Bignone e il peggio era passato. Gli anni terribili di Videla – e dei generali succedutigli in un carosello di sostituzioni – avevano però lasciato un’eredità di sangue che per decenni le donne di Plaza de Mayo avrebbero denunciato al mondo agitando i ritratti dei familiari scomparsi. Dopo quasi un quarto di secolo passato in diplomazia – prima in Africa, poi in Sud America – il cinquantasettenne monsignor Ferri aveva chiesto e ottenuto di rientrare in Italia ed era stato accontentato: gli era stato assegnato l’incarico di rettore del Pontificio Seminario *** nella diocesi romana. Proprio nei giorni immediatamente successivi al suo arrivo a Roma era scoppiato lo scandalo della denuncia infamante fatta dalle donne di Plaza de Mayo al cardinal Pio Laghi – nunzio apostolico durante la dittatura di Videla – e in Vaticano c’era molto imbarazzo. Anche se non aveva servito sotto Laghi, Ferri fu convocato d’urgenza dalla segreteria di stato per essere sentito. Confermò la propria convinzione che il porporato fosse un sant’uomo; dichiarò inoltre di essere a conoscenza che fosse intervenuto più volte di persona in aiuto di prigionieri politici. Certo – dovette ammettere – con risultati modesti, ma bisognava tener conto del clima fortemente intimidatorio e dell’ostruzionismo frapposto da diversi vescovi argentini e da molti cappellani dell’esercito, che parteggiavano per la giunta militare. Non è però la tragedia dei desaparecidos l’oggetto della nostra storia.
Terminato il colloquio, monsignor Ferri stava attraversando piazza Barberini per imboccare via Quattro Fontane immerso nei propri pensieri. Camminava con la sua andatura nervosa e zampettante, quando sentì una voce alle sue spalle esclamare:
“ Ciao pretino !”
Con tutti i preti che circolano per Roma possibile che chiamassero proprio lui? Eppure ne ebbe subito la certezza perché di colpo si rese conto che quella voce gli era molto familiare, anche se non la sentiva da più di vent’anni.
“ Giancarlo! Giancarlo Zanini!” – esclamò Ferri a sua volta – “ che bello incontrarti dopo tanto tempo!”
“ Dove ti eri rintanato?”
“ Ho girato il mondo… prima qua e là in Africa, poi in Argentina… alle nunziature… e tu, scrivi sempre?”
“ Non so fare altro… ma fermiamoci in un bar… ne abbiamo da raccontarci…”
“ Adesso ho molta fretta, ma se non hai di meglio ti invito stasera a cena… al Seminario … mi ci hanno mandato a fare il rettore…” “ Mi sentirò come il diavolo nell’acqua santa…” – commentò ridendo Zanini – “ ma accetto volentieri… da voi preti si mangia sempre bene.”
Zanini e Ferri erano stati compagni di corso all’università Cattolica di Milano nella prima metà degli anni ’60. Si erano entrambi laureati in lettere, Ferri con una tesi sulla letteratura ispanoamericana e Zanini con una sulla storia del giornalismo in Italia. La loro amicizia, schietta e fraterna, consolidatasi negli anni di studio, era poi proseguita fin verso la metà del decennio successivo, quando le loro strade si erano divise. Ferri, che nel frattempo si era fatto prete, fu assegnato al corpo diplomatico grazie all’ottima conoscenza di tre lingue straniere – l’inglese, il francese e lo spagnolo – e ad una sua predisposizione per le scienze politiche: l’amico – oscillante fra deismo e agnosticismo nonostante la scelta della sede universitaria impostagli dalla famiglia cattolicissima – l’aveva bonariamente preso in giro dicendogli che con la faccia da pretino che si ritrovava era un predestinato e non avrebbe potuto fare altro. Zanini si era dato al giornalismo e, partito come cronista della nera, era arrivato a diventare corsivista di punta di un importante quotidiano. Aveva pubblicato anche numerosi libri, quasi tutti di successo: erano per lo più romanzi polizieschi del genere hard boiled, che scriveva ispirandosi alle esperienze dei primi anni di professione.
“ Una cena davvero squisita…” – disse Zanini sprofondando nella poltrona – “ e il vino poi…”
“ Un cabernet-sauvignon gran riserva dell’ Abbazia di Novacella” precisò Ferri compiaciuto.
“ Volevo ben dire… tutte delizie da preti… altro che digiuni e penitenze…”
Seduti nel salotto del rettorato sorseggiavano il brandy in attesa di ritrovare la sintonia di un tempo per dare inizio alle confidenze.
“ Ti ringrazio del libro” riprese Ferri.
“ E’ l’ultimo che ho scritto… è un po’ diverso dai soliti e non sta facendo un gran successo… anche oggi l’editore se ne è lamentato e mi ha chiesto di portargli in fretta un poliziesco alla Mike Spillane…”
“ Suite di nostalgie… è un bel titolo. E’ una specie di memoriale?”
“ In un certo senso. Ho preso a modello la scansione delle suites di Bach: ad ogni danza una nostalgia…”
“Conoscendoti credo di sapere di che genere di nostalgie si tratti…” “Soprattutto la Gavotta… e la Giga!” esclamò Zanini scoppiando a ridere.
“ Ho capito… un’indigestione di sesso… dovrebbe far presa coi tempi che corrono. Come mai vende poco?”
“ Manca il sangue, l’azione violenta, la brutalità… oggi la gente si appassiona agli eccessi del pulp e non alle trasgressioni più raffinate…
Sade che surclassa Restif de la Bretonne ! ”
“ Mi pare che negli altri romanzi l’azione e la violenza non mancassero…”
“ Infatti… ma questo libro non è un romanzo come gli altri… non è neppure un romanzo… l’ho scritto soprattutto per me: ed è questo che scoccia all’editore. Ma tu leggilo, ti farà bene.”
Zanini se n’era andato già da mezz’ora e Ferri continuava a rigirare il volume fra le dita: aveva la sensazione che la lettura di quel libro l’avrebbe intrappolato lungo un sentiero ricco di incognite, ma non resistette. Fin dai primi paragrafi si sentì emotivamente coinvolto dalle rievocazioni descritte; turbato dagli abbandoni passionali e dalla nostalgia struggente per gli anni e i luoghi della giovinezza; insomma, catturato dalla suggestione che si sprigionava da ogni pagina.
“ E’ così ricco di duende…” si disse.
E poi, davvero, il sesso scorreva a fiumi, ma con sfumature intriganti e senza volgarità. Lui era riuscito ad ingabbiare le tentazioni della carne con autodisciplina e rinunce anche molto sofferte. Ora quel libro voleva forse dimostrargli che i suoi sforzi fossero il frutto di un abbaglio? convincerlo che il sesso inteso come piacere libero a tutti in tutte le sue forme – col diritto di vivere anche le effusioni più inusuali – non fosse affatto in contrapposizione con la Fede? che in lui sesso e Fede potessero coesistere, entrambi come fonte di gioia, ignorando l’impegno troppo severo alla castità?
Subito però si riprese pensando che questi turbamenti fossero amplificati oltre misura dalla stanchezza per una giornata di lavoro pesante, iniziata con il colloquio in Vaticano e conclusasi con l’amico ritrovato, col quale aveva ripercorso anni ormai lontani. Si era lasciato suggestionare… e poi aveva mangiato troppo… e anche ecceduto nel bere… sì, era sicuramente questo il motivo del suo smarrimento improvviso. Recitò le preghiere e si addormentò. Ma non ebbe un sonno tranquillo.
Nei giorni che seguirono Ferri si incontrò spesso con Zanini: si riannodavano così le frange di comunicazione scioltesi con il protrarsi della lontananza; si ricreava quella confidenza su cui era fondata, fin dall’inizio, la loro amicizia. In tutti quegli anni il giornalista aveva avuto una vita disordinatissima, dove sesso e sentimento si confondevano in una girandola di rapporti con donne d’ogni tipo e condizione, raccattate negli ambienti più disparati. Al momento si ritrovava con due divorzi alle spalle, tre figli e un cumulo pesante di alimenti da pagare che, benché guadagnasse bene, lo costringevano a scrivere articoli e libri con ritmo frenetico. Ma non per questo rinunciava alle avventure galanti… e siccome l’età aveva portato con sé il degrado inevitabile del sex appeal e prediligeva comunque le donne giovani e belle – la ‘carne fresca’ come la chiamava lui – era diventato un puttaniere accanito: erano svaghi costosi, cosicché inseguiva di continuo il bilancio in pareggio. Diversamente, però, non sapeva vivere.
Ferri aveva pure avuto una vita movimentata – benché di tutt’altro genere – nell’esercizio del proprio ministero, ma si era costretto ad una castità rigorosa, anche se le tentazioni non erano mancate. Aveva però pagato il prezzo di grandi sofferenze e sacrifici “perché” – aveva confidato molti anni prima all’amico – “ ho qui, dentro di me, un drago che mi divora e resisto solo rifugiandomi in Dio… ma a volte ho paura che non basti… ” E tuttavia fino ad allora era bastato. Quale fosse quel drago l’aveva rivelato solo a Zanini, ai tempi dell’università, e una volta in confessione – quando credeva di essere proprio a un passo dal cedere – al padre francescano Alvaro Gutierrez, durante la sua permanenza in Argentina. Quel drago, infine, altro non era che l’omosessualità e monsignor Sebastiano Ferri, pur non avendo mai ceduto a rapporti carnali, era inguaribilmente gay. Di statura appena al di sotto della media, aveva la testa un po’ grossa rispetto al corpo che, minuto in gioventù, stava arrotondandosi con l’età; il viso era roseo e paffuto, lo sguardo mobile e indagatore. Solo a chi fosse al corrente della sua inclinazione nascosta non sarebbero sfuggiti alcuni atteggiamenti caratteristici: l’andatura che diventava saltellante – una sorta di zampettìo – nella fretta; la voce che si faceva stizzosa quando si irritava; i polsi che nel gesticolare fitto denunciavano un eccesso di elasticità. Il suo segreto era però rimasto tale: il suo comportamento non dava adito a illazioni e Zanini aveva mantenuto un riserbo rigoroso.
Nei loro incontri Zanini si sfogava a raccontare le proprie esperienze – a volte con una ricchezza di particolari che metteva Ferri a disagio – ma evitava con cura di affrontare l’argomento del segreto a suo tempo confidatogli: anzi, se gliene veniva offerto lo spunto, era abilissimo a scansarlo. Ferri, d’altronde era restìo a parlarne apertamente per primo e però, col passare dei giorni, si stupiva della reticenza, che gli appariva studiata, dell’amico: aveva quasi l’impressione che, per una ragione misteriosa, volesse farlo cuocere a bagnomaria… Non riuscì però a chiarire questi dubbi perché arrivò come un fulmine a ciel sereno la comunicazione che avrebbe dovuto recarsi per un periodo ancora imprecisato – ma non inferiore a due mesi – presso l’archivio dell’arcidiocesi di Milano a svolgervi alcune ricerche dai risvolti storici e politici molto delicati circa l’operato del cardinal Shuster e i suoi riflessi internazionali. In seminario sarebbe stato sostituito da un rettore ad interim. Al collegio milanese S.Carlo, dove in un primo tempo si era pensato di alloggiarlo, non c’era più un buco libero che potesse garantire una sistemazione adeguata; i suoi superiori avevano così deciso per una congregazione di religiosi piuttosto lontana dal centro, dove in compenso ‘avrebbe goduto della serenità e del raccoglimento necessari al lavoro assegnatogli ’. Ma questa soluzione non gli piaceva: ogni mattina avrebbe impiegato un’ora per arrivare all’archivio e ogni sera un’altra per rientrare… e poi gli orari rigidi e la libertà limitata non facevano più per lui. Ne parlò a Zanini e, come per miracolo, dalle tasche del giornalista uscì un grosso mazzo di chiavi, due delle quali erano di un bilocale in zona Crocetta, a quattro passi dal Duomo. Zanini l’aveva preso in affitto anni prima – quando andava molto spesso a Milano – e non l’aveva più lasciato, anche se ormai lo usava di rado: al momento non gli serviva e lo metteva a completa disposizione dell’amico perché – commentò con un sorriso – ne facesse buon uso…
Nei giorni che precedettero la partenza, monsignor Ferri sentì il giornalista solo un paio di volte al cellulare. Arrivò a Milano col pendolino e un taxi lo depositò in via Lamarmora, quasi all’angolo con il Largo della Crocetta. Si trovò di fronte una casa del primo ‘900 – a due piani e una mansarda – con la facciata stretta e, nel complesso, in buono strato di manutenzione. Il portoncino d’ingresso, a due battenti di legno massiccio e di fattura pregevole, era di epoca precedente al fabbricato; il piano terra era completamente occupato dall’atrio e dal vano scale, mentre al primo piano c’era lo studio tecnico di un architetto e al secondo l’ambulatorio di un oculista. Entrando nella mansarda – un bilocale più i servizi – Ferri ebbe di colpo l’impressione di trovarsi in una garçonnière: era forse la suggestione di sapere chi ne fosse l’affittuario…? Notò che nella piccola libreria del soggiorno dominava la letteratura licenziosa – dai fablieaux medievali ai dialoghi dell’Aretino, dai gioielli indiscreti di Diderot fino ad Anaïs Nin – e in camera da letto trovò, come livres de chevet, un volumetto dal titolo molto poetico – Il mirto e la rosa – e una copia di Suite di nostalgie; sopra il cuscino era posato un memorandum con cui Zanini lo avvisava che la donna delle pulizie si sarebbe fermata ogni mercoledì mattina per due ore, che per i piatti sporchi c’era una lavastoviglie efficientissima e che per lavare e stirare gli indumenti poteva rivolgersi ad una lavanderia distante un centinaio di metri in corso di Porta Romana; sulla consolle posta sotto la specchiera di fronte al letto spiccava, tra le riviste, l’ultimo numero di Milano di notte; infine, sul mobiletto del bagno c’era, nuova di zecca e in bellavista, una confezione formato famiglia di profilattici.
“Nisi casti tamen cauti… vade retro!” esclamò Ferri un po’ irritato; ma lasciò tutto com’era.
Un settembre tanto bello non lo ricordava da anni: il cielo azzurro senza una nuvola, così chiaro e così in pace. Non rimpiangeva i panorami di terre lontane, né il fulgore sfacciato del sole romano con i suoi tramonti sgargianti, ma si godeva questa gioia serena che, dopo anni, ritrovava anche nella compostezza di S.Ambrogio e del suo quadriportico. Era talmente soddisfatto che Milano non gli sembrava nemmeno tanto caotica e quando camminava per il centro spostandosi da un archivio all’altro alla ricerca di documenti, o andando alla biblioteca della Cattolica a consultare dei testi – gli pareva di rinascere. Si sentiva lombardo fin nel profondo. Il dopo cena, per quella prima settimana, lo riservò, da cinefilo appassionato qual era, al cinema d’essai: non che a Roma mancassero le sale – figurarsi, la capitale del cinema! – ma a Milano la visione di quei film aveva per lui tutt’altro sapore: in poche parole era come un esule che avesse fatto ritorno a casa.
Dedicò il week-end al suo paese d’origine, Osnago, dove vivevano ancora il fratello Xenio con la moglie – le cui due figlie erano sposate in Svizzera – ed alcuni cugini che non vedeva da molto tempo. E attraversando in treno la Brianza, guardando quel caro paesaggio scorrere attraverso i finestrini, provò ancora la stessa gioia e una dolcezza infinita. Non aveva molto da dire ai parenti e in fondo neppure al fratello: li amava, naturalmente, ma il lungo distacco e la differenza enorme da esperienze vissute, una volta esaurita la cronaca succinta degli avvenimenti principali, rendevano difficile una comunicazione più profonda. Dopo tutto – quasi si vergognava con se stesso ad ammetterlo – era stato l’incontro memoriale con i luoghi ed il loro incanto a commuoverlo di più.
Il lunedì successivo al cinema d’essai non c’era nulla che lo interessasse e aveva così deciso di restare in casa a guardare un’oretta di tv per poi andarsene a letto presto a leggere. Ma – direbbero molti ben pensanti un po’ bigotti – il diavolo sa quando metterci la coda. Questa volta la coda fece capitare in mano a monsignor Ferri la copia di Milano di notte che galleggiava sul pacco di riviste sparse sulla consolle e, sfogliando le pagine patinate con le relative illustrazioni, scoprì dov’erano alcuni locali notturni, con tanto di spettacolo, riservati ai gay.
Che i partiti politici si approvvigionassero di denari in modo illecito e che gli uffici pubblici fossero invasi da un fitto intreccio di tangenti lo sapevano da anni anche i bambini, ma lo scandalo di tangentopoli scoppiò violento e improvviso quando, come usa dire, ‘i tempi erano maturi’. E così anche nella mente di monsignor Ferri maturò, inattesa e fulminea, la decisione di recarsi in uno di quei locali. Forse aveva contribuito l’euforia provocatagli dal ritorno nei luoghi della giovinezza, ma una spiegazione vera e propria sarebbe, oltre che inutile, impossibile: certe cose accadono semplicemente perché devono accadere.
Vestito casual, con un paio di occhiali dalla montatura pesante e dalle lenti affumicate, Ferri entrò verso la mezzanotte allo X***, un locale notturno per gay dalle parti del Mac Mahon. Prese posto ad un tavolo e notò che quasi tutti i clienti avevano un’aria insospettabile: insomma una nutrita rappresentanza del perbenismo della middle class in giacca e cravatta… se ne stupì: paradossalmente era il suo l’abbigliamento più disinvolto. I camerieri invece erano tutti en travesti e la pista era occupata da un groviglio di giovani palestrati nudi, luccicanti d’olio, che si esibivano in una serie di pose erotiche. Tra un numero e l’altro alcuni entraineurs si recavano ai tavoli proponendo la propria compagnia e sollecitando la promiscuità fra il pubblico. Ferri rifiutò ogni contatto e si limitò a guardare. Tornò a casa al culmine dell’eccitazione e trovò pace solo masturbandosi. Non provò rimorsi; anzi si compiacque di essersi limitato ad uno sfogo solitario… ‘solo sesso virtuale…’ – pensò – ‘ una sorta di barriera immunitaria che mi protegge da malanni peggiori.’
Per alcuni giorni visse un doppia vita: irreprensibile topo d’archivio fino all’ora di cena e, da mezzanotte in poi, avido voyeur. Ma non andava mai oltre: benché gli apparisse strano, non provava attrazione fisica verso quei ‘bambolotti smaltati’- come li aveva definiti – anche se gli piaceva moltissimo guardare. Forse per il salto di qualità era necessario un coinvolgimento più profondo; un sentimento come aveva segretamente provato in passato per altri – in fondo pochi – e soprattutto per Hernan, il bel tennista argentino. In realtà, senza rendersene ben conto, Sebastiano Ferri era da sempre innamorato dell’amore. E l’amore arrivò con Stefan, un giovane cameriere rumeno. Una notte, mentre Ferri osservava il solito spettacolo hard sentì che gli veniva sfiorata la mano: era un tocco inatteso e delicato che lo inondò d’un calore improvviso. Si volse di colpo e incontrò lo sguardo del ragazzo che, avendo finito il turno, cercava un cliente: non dava però l’impressione di essere una marchetta come le altre. Stefan aveva ventidue anni e un fisico ben formato, ma i lineamenti del volto dimostravano una grazia adolescenziale.
“ Allora?” spiccicò Ferri con la voce che gli usciva a fatica.
“ Se vuoi possiamo stare un po’ insieme…” il ragazzo denunciava una certa timidezza, in parte sicuramente artefatta.
“Verresti a casa mia?” rilanciò Ferri.
“ Va bene…” – rispose Stefan dopo un attimo di esitazione – “però me lo fai il regalino…”
La richiesta, fatta in modo quasi ingenuo, travolse definitivamente ogni dubbio e ogni difesa di Ferri, che si tuffò senza esitazione, anima e corpo, in quella storia.
Nei giorni che seguirono Ferri, pur continuando con diligenza la propria ricerca d’archivio, dedicò tutto il tempo libero alla sua nuova passione per Stefan, che aveva subito soprannominato ‘lo zingarello’. Non si illudeva che il suo amore fosse corrisposto – in fondo nelle storie d’amore è sempre uno che ama mentre l’altro si lascia amare – ma riconosceva con soddisfazione che lo zingarello era sinceramente affascinato dalle sue parole e ciò rappresentava comunque una forma d’affetto che gli riempiva la vita.
Era stato un settembre denso di avvenimenti, culminati nel terremoto in Umbria con il crollo, ad Assisi, del tetto della basilica del Santo; ma Ferri era tutto preso dalla pienezza del suo nuovo sentimento, che sovrastava ogni altra cosa e così tutto passava in second’ordine.
“ L’amore è la vera essenza del cristianesimo” – si diceva per tener lontani i rimorsi che peraltro si stupiva di non provare – “ e dunque l’amore deve giustificare ogni atto che ne faccia parte…”
A poco a poco subentrò in Ferri anche una grande tenerezza, che si alternava ai momenti di passione: arrivò a recitare le preghiere della sera per tutti e due ad alta voce, abbracciato allo zingarello accarezzandolo, prima di addormentarsi con lui. Le storie d’amore, come ogni cosa al mondo, hanno un inizio e una fine: in particolare storie come questa sono destinate a durare poco; e infatti, ai primi di novembre, monsignor Ferri fu richiamato a Roma. Anche lo zingarello doveva tornarsene a casa: il permesso di soggiorno era scaduto ed era costretto a rientrare in Romania. La separazione portò con sé, com’era logico, una grande malinconia e se Ferri soffrì molto, anche lo zingarello si dimostrò a modo suo triste. Si promisero di rivedersi non appena possibile: ma era una promessa facile a farsi e ben più difficile, se non impossibile, da mantenersi.
Il segretario di Stato convocò Ferri e si complimentò con lui per il buonlavoro svolto.
“ Era un incarico molto delicato e il suo impegno è stato davvero lodevole. Anche il Santo Padre se n’è compiaciuto.”
“Con l’aiuto di Dio, eminenza…” rispose Ferri mentre stava per congedarsi. Il porporato lo fermò: “Monsignore aspetti! ho ancora una comunicazione importante da darle. Lei sarà vescovo. Il Santo Padre, come lei sa, officerà la cerimonia il giorno dell’Epifania.”
Per l’Epifania la basilica di S. Pietro era gremita. Stipati nei banchi della prima fila, tra i familiari dei nuovi vescovi, Ferri osservava il fratello Xenio e il cugino Lelio arrivati da Osnago la sera prima: uno smarrimento evidente e una fierezza un po’ ingenua si mescolavano nell’espressione dei loro volti di semplici artigiani brianzoli. Di colpo dietro di loro spuntò la faccia da impunito di Giancarlo Zanini e Ferri sussultò: ne incontrò lo sguardo ironico e soddisfatto ed ebbe la certezza, anche se non gli aveva raccontato nulla, che l’amico avesse indovinato tutto del suo soggiorno milanese.
Gianni Carotti
da ‘L’occhio di Samuele’
edizioni Campanotto