Scrivere per un giornale è un privilegio ma anche una responsabilità. È il privilegio di avere più voce degli altri, è la responsabilità di usare quella voce nell’interesse di più persone possibili. Ed ecco che questa settimana il mio editoriale esce dai suoi confini di cultura generale e si occupa di un fatto personale ma che credo vada raccontato nell’interesse di tutti.
Martedi mi sono recato in uno dei migliori ospedali d’Italia, nel pieno centro di Milano, in quello che dovrebbe essere un reparto di eccellenza, per effettuare una gastroscopia prenotata ben 4 mesi fa: e già qui ci sarebbe da eccepire, ma pare che oggigiorno 4 mesi siano pochi …
Vengo invitato a recarmi lì alle 16.30, ma vengo sottoposto all’esame intorno alle 19.45, tre ore di attesa nonostante l’appuntamento preso mesi prima.
Accanto a me sui lettini ci sono tre donne molto anziane, decisamente oltre gli 80 anni, che attendono dal primo pomeriggio di essere riportate in camera dopo l’esame, e sono digiune dal mattino perché da un momento all’altro una ambulanza le avrebbe dovute riportare in reparto: ci arriveranno intorno alle 20, perché non ci sono mai ambulanze disponibili.
E ora tocca a me: vengo trasportato in un’altra sala dove la giovanissima dottoressa molto sicura di sé che mi esaminerà mi nega la sedazione con manifesta baldanza, e questo perché “non sono accompagnato” regola indiscutibile che la rende fiera della propria inamovibilità.
Ho aspettato 4 ore, ma chi trovo io che mi aspetta mezza giornata per riportarmi a casa in un giorno feriale, casa che peraltro sta a 250 metri dall’ospedale? Tento di negoziare: posso chiamare un taxi no? Assolutamente no, mi risponde inamovibile e spazientita la figlia della stirpe di Ippocrate. Niente sedazione. Il tutto dopo che ho appena consegnato 8 pagine di liberatoria in cui mi assumo praticamente ogni responsabilità di ciò che mi accadrà durante l’esame, ma in cui non posso assumermi la responsabilità di quello che mi accadrebbe fuori dall’ospedale se verrò sedato: attenzione, stiamo parlando di qualche goccia di Valium per endovena (peraltro già predispostami nel braccio con farfalla da una cortese infermiera) e non di una anestesia totale, ma poco importa, la burocrazia impera: poi mi si dovrebbe spiegare come mai sul rispetto delle liberatorie siamo rigidi come in Svizzera mentre sui tempi di attesa siamo laschi come in Burundi, ma tant’è…
Questo ci porta all’apice della vicenda: serena e imperterrita la mia esaminatrice al posto del Valium mi chiede se pratico lo yoga, e di appellarmi alla respirazione controllata orientale per sopportare l’esame. Ora, con tutto il rispetto per chi pratica queste discipline, mi sono trattenuto dall’ esprimermi come il mitico Fantozzi sulla Corazzata Potemkin, e credo che davanti allo yoga come pratica ospedaliera qualunque Chiesa appena passabile qualche secolo fa ci avrebbe mandati tutti e due al rogo.
Per me che sono da sempre un fiero oppositore della omeopatia e un fondamenalista della medicina tradizionale sentirmi parlare di yoga al posto del Valium a 500 metri dal Duomo di Milano è stato veramente un colpo al cuore.
Seguono circa 15 o 20 minuti di tortura a mente serena con un tubo di un metro e mezzo in gola e ben 4 biopsie: il referto. Viene messo bene in evidenza che data la scarsa tolleranza del paziente si fatica ad essere precisi nella diagnosi. Un po’ surreale, ma in tono con il suggerimento dello yoga in verità.
Non farò né il nome dell’ospedale né del medico, perché non bramo vendetta, e anche perché ho correttamente segnalato via mail quanto accaduto alla Direzione della Struttura.
Ora io comprendo anche che le difficoltà in cui versa il Sistema Sanitario siano atroci (e allora sarebbe il caso di dirlo chiaramente, di parlane chiaro e di fare anche qualcosa …), comprendo che magari quella giovane e forse non molto esperta dottoressa (di gastroscopie ahimè ne ho dovute fare molte, ma mai nessuna così maldestra e dolorosa) alle otto di sera era sfinita dal fare esami magari da tutto il giorno, che come tutte le strutture pubbliche siano sotto organico in maniera ormai tragica, ma credo che non ci si dovrebbe mai dimenticare che il paziente non è un oggetto ma un soggetto, che se non è un sofferente, è uno che teme di esserlo e un minimo di maggior riguardo non avrebbe certo guastato.
Ora mi punge vaghezza, da ex politico locale, di sciorinare una qualche serie di possibili soluzioni ai tanti problemi che affliggono la nostra sanità, e tra l’altro qualcuna molto buona l’avrei anche in mente, ma non è il mio mestiere, tocca ad altri. E anche di dirci che forse se noi italiani trovassimo il tempo di scendere in piazza per i problemi della sanità ogni 10 volte che lo facciamo per le guerre che scoppiano a 10.000 km da qui sarebbe già un inizio.
Per oggi mi limito, da paziente editorialista, a segnalare a chi del mestiere che così va proprio male, soprattutto in un polo di eccellenza nazionale e per un banale esame di routine.
Ma soprattutto, dopo martedì mi sono posto una domanda su tutte: mentre la Sanità langue disperata, si progettano un po’ ovunque grandi nuovi ospedali dai magnifici renders con tanto di giardini pensili, ma chi lì farà funzionare se mancano medici, infermieri, ambulanze, organizzazione e anche un po’ di cara vecchia empatia umana?
sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
docente di archivistica all’Università degli studi di Milano
cremonasera.it
Una risposta
Come commentare il diario di un’ esperienza di ordinaria follia? Concordo sulla discesa in piazza. Se la medicina ufficiale consiglia ai pazienti di darsi allo yoga, ricambiamo invitando i responsabili di quest’indecenza a darsi… all’ ippica