Nell’elegante piazza di una città di provincia (Ascoli Piceno, luogo di nascita del regista Giuseppe Piccioni), una maestra mette in fila ordinatamente i suoi piccoli allievi, comandandoli con ordini secchi. In questa stessa piazza, un gruppo altrettanto ordinato di giovani ginnaste esegue una coreografia impeccabile, ordinata ed elegantissima, che si svolge sotto gli occhi di tutti i passanti, e specialmente dei clienti della trattoria di Luciano, il protagonista; luogo di ritrovo che sarà lo sfondo pressoché esclusivo dei fatti narrati (e in questa scelta, come in uno dei temi di fondo, si avverte la suggestione del bellissimo Concorrenza sleale di Ettore Scola, in cui lo scorrere del tempo è colto dall’angolo di visuale di un angusto vicoletto romano). Sulla stessa piazza, si esibiranno poi, durante l’inverno, due abili pattinatrici che volteggiano con sicurezza, senza tuttavia saper evitare un passo falso che fa cadere malamente una delle due. Parecchio tempo dopo, lo sfondo della piazza mostrerà uno spettacolo ben più inquietante: in una nebbia fitta, con un tempo inclemente, un bambino si mostra agli avventori della trattoria indossando una maschera antigas, simbolo di tempi meno radiosi e ben più cupi.
Con la forza delle immagini, e in piena coerenza con quanto la trama racconta, il regista esprime un giudizio acuto sul fascismo, nel momento stesso in cui rifiuta i toni aggressivi della denuncia esplicita e dell’invettiva: il regime avrà anche costruito qualcosa di buono (come afferma in un passaggio importante il protagonista, un Riccardo Scamarcio nella sua interpretazione più espressiva), ma al prezzo di ridurre gli italiani ad un gregge di pecore perfettamente intruppate, di aver diffuso terrore e sofferenza a piene mani ed aver sospinto una popolazione più inconsapevole che colpevole in una strada senza speranza, che si concluderà con l’orrore della guerra. Del resto, chi osa ribellarsi, anche solamente con velate parole e con il ricordo della libertà perduta, viene intimidito e ridotto ad un rottame umano, senza più dignità: è quel che accade al professore splendidamente interpretato da Antonio Salines.
I difetti tradizionali della provincia (il pettegolezzo, il voyerismo, l’ipocrisia appena velata da parole di circostanza) sono esasperate da un regime che usa abilmente il bastone e la carota, e mira ad alimentare la doppiezza dei benpensanti come il fanatismo dei più giovani. Anche i buoni, anche le persone naturalmente più restie alla violenza, ne rimangono contaminati e non sembrano rendersi conto del male che compiono o che subiscono, del disprezzo e della scelta di esclusione di cui si rendono colpevoli. “Perché non vedi le cose che vedo io?” esclama amareggiata Anna (interpretata con il giusto fascino e la giusta spigliatezza da Benedetta Porcaroli) all’uomo che ama, mentre osserva la vicina che appende alla vetrina della sua bottega “Negozio ariano”.
Il grande merito (di sceneggiatura e di regia) di questo ben riuscito L’ombra del giorno sta nella capacità con la quale Piccioni ha saputo coniugare, senza forzature, un giudizio storico e morale sulla cupa stagione del fascismo, con una trama di sapore melodrammatico, piuttosto convenzionale ma arricchita da un breve innesto drammatico, che le consente di reggere lo spettacolo, e veicolare, attraverso di esso, una ricostruzione d’ambiente di grande forza espressiva e di apprezzabile veridicità storica. Il plot ricalca Casablanca, e il regista è tanto lontano dal volerlo nascondere da sfiorare almeno in un punto la parodia: quando mette in bocca ad Anna le parole d’amore convenzionali che il genere impone per quella particolare situazione. Ma, appunto, mentre allo spettatore vengono concessi emozioni, suspense e dramma grazie ad una vicenda raccontata con ritmo svelto e accattivante, s’impone anche il giudizio su un passato non troppo lontano, e che può ritornare a far paura, se dominano l’ignavia e l’indifferenza di un popolo soddisfatto e inconsapevole.
L’ombra del giorno (l’enigmatico titolo allude forse al dubbio, alla perplessità di fronte ad una condizione che è sempre stata considerata naturale) è anche, in subordine, la storia di una lenta presa di coscienza, di una crisi tenuta sotto controllo, ma pronta ad esplodere a contatto con un amore che è anche invito a guardarsi dentro e intorno, e a conoscere (e da questo punto di vista sono rivelatori i libri che Anna regala a Luciano e che ripone negli scaffali della sua libreria sguarnita). Il confronto continuo con ciò che appare sempre più innaturale e falso, non amichevole, ma sottilmente minaccioso (significativa la figura del camerata, amico subito pronto a mutar faccia) induce il protagonista ad un ripensamento; ad uscire da sé e ad accogliere ciò che il regime perseguita e vuole annullare; a compiere infine un gesto definitivo: Luciano getta a terra le sue decorazioni di guerra e si toglie la camicia nera.
Vittorio Dornetti
https://www.youtube.com/watch?v=Hi6qI1yjHlA
https://www.youtube.com/watch?v=AVr-fCYXmYs