La scuola cattolica di Stefano Mordini risulta nel complesso un film riuscito, soprattutto se commisurato ai rischi connessi all’impresa. Rivela infatti momenti di buon cinema, e un’analisi sociologica che approda ad esiti di alta consapevolezza, accanto ad altri più inerti e convenzionali, con troppi personaggi, alcuni ben caratterizzati, altri appena abbozzati: si prova la sensazione che siano lì quasi di passaggio. Era peraltro inevitabile per la trasposizione cinematografica del romanzo monumentale di Edoardo Albinati (che nel film compare anche come personaggio): la sceneggiatura, dello stesso Mordini e di altri, lo riduce ad un film di poco più di un’ora e mazza.
Dati questi presupposti, molto del testo letterario (già di per sé caratterizzato da uno stile non semplice né scorrevole) viene espunto dall’opera cinematografica, o ridotto a scarni accenni, ad allusioni che bisogna cogliere rapidamente. L’esempio più eclatante è costituito dalla mancata analisi della relazione fra una scuola cattolica (che non significa necessariamente un’educazione o un credo religioso, dato lo scarso peso che morale e religione hanno per questi giovani) e il maschilismo esasperato, il senso di impunità e di onnipotenza, la totale confusione di ragazzi completamente sbandati. I loro rapporti coi genitori sono inesistenti o carichi di reciproca aggressività: li ossessiona il desiderio di violentare ed umiliare, per mascherare il loro stesso desiderio di umiliazione e di morte (al centro del romanzo e del film sta il delitto del Circeo, uno dei più efferati casi di violenza privata dell’intera storia nazionale).
I nessi fra questa ideologia mortifera, la degenerazione ideologica di alcuni di questi giovani (uno idolatra Hitler, l’altro diventa terrorista e si fa saltare in aria con una bomba mal costruita) e la loro formazione cattolica sono illustrati in modo episodico ed indiretto. Il film ne tratta per cenni: l’esclusivismo maschile della scuola; l’arroganza e la ricchezza ostentata di genitori sempre pronti a coprire le malefatte dei figli col denaro, offerto a direttori e presidi fin troppo condiscendenti; la diffusione di un buonismo e di un perdonismo superficiale, ammantato di comprensione, ma che finisce per giustificare comportamenti che diventano sempre più esasperati e degenerati.
Un difetto nella struttura del film (e meglio un peccato di sceneggiatura) sta nella difficoltà a mantenere la barra dritta sulla scelta originaria dell’opera: cominciato come un’indagine sociologica, non priva di spunti acuti, sul disagio e il comportamento di questi giovani “bene” (e si vedano le sequenze ben riuscite sul loro modo di stare insieme, cupo e selvaggio, scomposto ed aggressivo soprattutto nei confronti delle “femmine”), il film si concentra nell’ultima parte sul rapimento e le sevizie ai danni delle due ragazze del “popolo”, condannate ad espiare la loro condizione sociale, la loro ingenuità, e soprattutto il loro essere donne, quindi vittime designate. Si tratta di scene indubbiamente efficaci nella loro crudezza repulsiva, e davvero vogliono polemizzare a tutti i costi quanti hanno sostenuto che gli autori giochino ipocritamente sull’attrazione sessuale dei corpi nudi di vittime e carnefici, mentre proprio la nudità è il simbolo di una regressione verso uno stato selvaggio e bestiale.
Raramente il cinema ha saputo esprimere con tanta forza il ribrezzo e il disgusto della violenza di genere. Film quasi esclusivamente di maschi (e di genitori variamente falliti), La scuola cattolica non è solo un’analisi della “mascolinità tossica”, che sta continuamente offrendo tragiche prove di sé; è anche (e finalmente) un’opera sulla difficoltà di essere maschi, a cui la società attribuisce compiti difficili, non preoccupandosi di comprenderne le difficoltà e la frustrazione che ne derivano. Al contrario, l’essere maschi significa appunto non manifestare né disagio né insicurezza, né tanto meno segnali di fragilità. Per quanto riguarda il resto (scoprire la propria identità, essere all’altezza in ogni situazione, specie nella sfera sessuale, primeggiare, essere destinati – o condannati – a prendere il posto del padre), a nessuno importa, neppure alle compagne, pronte a sorridere di scherno davanti alle défaillances amorose del partner,
La fragilità dell’essere umano sta nella compresenza di male e di bene e quindi nella difficoltà di distinguerli e di non sovrapporli, come indurrebbero a pensare certe filosofie capziose e ciniche a cui gli autori non sembrano dare credito (troppo breve, però, per comprendere esattamente le intenzioni del regista, la sequenza che vede come protagonista un Fabrizio Gifuni vagamente luciferino). Eppure la soluzione, e cioè una scelta diretta, senza ambiguità, può essere semplice:
basta presentarsi alla ragazza terrorizzata ed umiliata dal fratello destinato al crimine, chinare la testa davanti a lei ed invocare il suo perdono.
Vittorio Dornetti