Maserati, Ilva e il problematico ruolo dello Stato a difesa dell’industria

29 Gennaio 2024

GLI EDITORIALI DI ADA FERRARI

Due recenti notizie economiche hanno a stento bucato il muro di un’attenzione mediatica giustamente concentrata su cose di planetaria rilevanza quali panettoni e uova pasquali di una certa influencer o saluti fascisti di potenziale eversivo pari a un petardo di carnevale. Quali siano  è presto detto e quel che più conta è che, debitamente collegandole, molto ci raccontano del nostro sistema produttivo.

Prima notizia: la Fiat, cessando la produzione di Maserati in Piemonte, ha di fatto sbaraccato anche l’ultima postazione italiana. Il più noto e prestigioso marchio del made in Italy completa dunque il processo di francesizzazione ma anche di transizione dal capitalismo a dominante industriale a quello a dominante finanziaria. E che altro poteva dire una Meloni contrariata quanto si conviene a un capo di governo -per giunta espressivo di un partito assai sensibile all’interesse nazionale- se non stigmatizzare la scelta e chiedere che le auto italiane continuino ad essere prodotte in Italia? Sacrosanto richiamo. Per quel che può servire chiudere la stalla a buoi scappati.

Seconda notizia: le sorti dell’acciaieria Ilva di Taranto (foto centrale) tornano in alto mare dopo il mancato accordo fra il governo e gli indiani di Arcelor Mittal. Il più grande complesso siderurgico d’Europa da tempo vivacchia con produzione ridotta ai minimi e la strada verso una soddisfacente soluzione appare lontana. Gli enormi costi richiesti dalla riconversione green spaventano i potenziali partner e sono ormai fuori portata rispetto a un’ipotesi di salvataggio statale. Per non dire delle fondate perplessità circa la futura effettiva capacità concorrenziale del nostro polo siderurgico nei nuovi scenari del mercato.

In un lontano ma indimenticato delirio pubblico, Beppe Grillo invocò che sulle rovine di un’Ilva da smantellare al più presto sorgesse un grande parco giochi per bambini. Dio non voglia che il destino gliela dia vinta. Fatto sta che la deindustrializzazione del nostro Paese avanza con conseguente perdita di posti di lavoro e generale impoverimento. Non a caso  la politica discute e litiga non a proposito di un piano industriale in grado di produrre nuova ricchezza ma riguardo a provvedimenti sociali in grado di lenire le nuove povertà: in cima all’agenda la redistribuzione delle risorse residue, nebbia su come ricominciare a produrle. In tal senso il caso Ilva, colosso arenato senza apparente via d’uscita, va ben oltre se stesso e risulta altamente illuminante riguardo a paradossi del nostro sistema economico che, almeno a prima vista, parrebbero in contrasto con quel che il senso comune suggerisce. Scopriamo infatti colossi industriali dai piedi d’argilla mentre impressiona la tenuta competitiva di quel tessuto imprenditoriale medio piccolo che, pur in presenza di enormi criticità e di una stretta creditizia ascrivibile alle feroci scelte della Bce, ha dimostrato sostanziale capacità di risposta alle sfide della transizione sociale, ambientale e digitale. Tanto di cappello al valore professionale e all’umano coraggio di proprietari e dipendenti. Se l’Italia mantiene il ragguardevole rango di terza economia europea, praticamente imbattibile nel manifatturiero, il merito è principalmente ascrivibile a loro. Se ne potrebbe dedurre che ‘piccolo è bello’, alla faccia di un pensiero dominante che da anni identifica ossessivamente la salvezza e la solidità economica nel raggiungimento della grande dimensione? La risposta esula dalle mie limitate attrezzature. Mi accontento dunque di osservare un po’ più da vicino qualche aspetto del gigantesco e tentacolare problema 

Prima parola chiave e pista da seguire: lo Stato e il suo ruolo in un capitalismo maturo e complesso quale il nostro. Non fingiamo di aver dimenticato che per parecchio tempo sparare a zero sulla presenza della mano pubblica in economia è stato un vero e proprio sport nazionale, praticato prima a destra, in seguito e con maggior zelo devozionale a sinistra. Il mito della superiore intelligenza del mercato che, lasciato libero, fa sempre la scelta migliore a vantaggio di tutti  – produttori, consumatori, commerci e così via – ha sbaragliato ogni precedente modello. Senonché, alla cruciale prova dei fatti, tutt’altro che rassicurante appare l’esito di questa  giungla del  ‘liberi tutti’ in cui  da qualche decennio l’economia italiana naviga a vista senza alcuna cabina di regia, dopo che lo Stato s’è fatto da parte e con lui ogni straccio di programmazione e di orientamento istituzionale dello sviluppo. Ben maggiori appaiono gli squilibri sociali generati rispetto a quelli sanati E mettiamo pure fra le aggravanti su cui puntare i riflettori il ruolo ormai decisivo della nuova fauna manageriale conseguente allo sdoppiamento, da tempo intervenuto, fra la proprietà e la gestione dell’impresa. Ai ‘capitani coraggiosi’ che inventarono e fecero grande la nostra economia grazie a genialità, rapidità decisionale, disposizione al rischio d’impresa e personale integrità  – apprezzati non solo da un Max Weber ma persino da un Carlo Marx –  è succeduta  proprio nei grandi complessi di più elevato valore strategico la nuova fauna dei famosi top manager. Traghettati dai partiti, risultanti da spericolati accordi e incerte tregue fra cordate politico affaristiche, stanno rischiando di ridurre il nostro sistema industriale – ma anche il terziario, banche, trasporti e così via –  a uno spregiudicato ‘mordi e fuggi’ la cui regola sovrana è garantire il massimo degli utili agli azionisti comprimendo e sacrificando diritti e legittime attese di tutti gli altri portatori di interessi. Scala di valori ribaltata se a fronte dei fallimenti e dei disastri spesso prodotti, e scaricati poi sulla collettività, vengono premiati con liquidazioni stratosferiche. Una specie di capovolta meritocrazia del demerito.

E allora cosa diavolo si blatera ai piani alti comunitari, e non solo, di sostenibilità sociale, etica e altre eleganti velleità se non riusciamo nemmeno a contenere la deriva delle più impudiche pratiche predatorie legate alla finanziarizzazione dell’economia?  Qualcuno me lo spieghi.

 

Ada Ferrari

4 risposte

  1. Tardi…quando Fiat si vendeva a Peugot,tutti a battere le mani per la definita fusione(????)stampa.tv.addetti ai lavori…,in realta’ si trattava di quasi ..incorporazione.
    Ma di economia e finanza in Italia sono in pochi a capire..tanti a credere di capire e ..sapere.
    Ilva?? Se ne occupava Di Maio…tutto dire.
    Tutto quanto successo da quel momento in poi…ne e’ la conseguenza.
    COMPLIMENTI al commento di Ada Ferrari.

  2. Mi capitò diversi anni fa di andare a Taranto e appena entrato nella periferia chiesi a chi mi accompagnava come mai i rail delle strade erano gialli. Mi rispose con due parole: i fumi dell’acciaieria. Parlo forse anche di più di quindici anni fa.
    Da quell’anno a oggi ho sentito di tutto: vendita, affitto, riconversione, chiusura, giardini fioriti……
    Ma tutte le amministrazioni della città, provincia, regione dove sono state fino ad ora? Ma quanto ha dato il nostro Stato, altro che la vendita della Peugeot, qualche anno prima. La gente non si ricorda della Fiat e le belle parole dell’Avvocato?
    Una mia modesta considerazione: spero che il Cavaliere non si faccia prendere da sentimentalismo nazionale.
    Complimenti per l’articolo.

  3. Analisi inconfutabile, che si può trasferire alla vicenda subita negli ultimi 20 anni dai servizi pubblici locali, soprattutto quelli a rete come luce e gas.
    Sembrava che concentrarli nelle mani delle grandi Aziende avrebbe comportato un vantaggio a noi consumatori, grazie alle economie di scala, li stiamo amaramente constatando questi vantaggi!

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