Questione di mesi e anche l’Italia, dopo la Francia, sarà alle urne per consultazioni prima amministrative e poi politiche che si annunciano fra le più delicate della storia repubblicana. Agevole l’esercizio profetico: astensionismo molto alto, e ,fra i principali ingredienti psicologici del voto, una temibile combinazione di frustrazione per gli esiti della passata azione politica e di diffidenza per le sue future possibilità di riscatto. Non la solita fisiologica diffidenza dei governati verso i governanti ma un risentimento più strutturato e incattivito dalle eccezionali criticità che hanno impietosamente piegato verso il basso ogni nostro standard materiale e immateriale: capacità d’acquisto, speranza di vita, invulnerabilità sanitaria, sicurezza strategico militare. Trema dalle fondamenta l’intero costrutto di certezze e protezioni edificato dal secondo dopoguerra. Umano chiedersi a cosa diavolo serve la gigantesca e dispendiosa piramide di poteri e potentati che dalle prossimità locali dei municipi fino alle stellari lontananze dei grandi consessi comunitari
ci racconta di occuparsi di noi e di vegliare sulla nostra sicurezza. Messa così la domanda è semplicistica e concettualmente mal posta: guai scambiare la politica per un ramo dell’anti infortunistica. Sarebbe tuttavia ipocrita negare che il disagio che spinge un’elevata percentuale di italiani a catalogare la politica fra i malati terminali un fondo di verità lo contiene. Abbastanza da spenderci qualche considerazione.
La prendo alla lontana. I filosofi, o quel che resta di un’antica e non inutile comunità, parlano di ‘oscuramento della verità’ come problema centrale del nostro tempo e della politica in particolare. In effetti, quel che più pare inasprire gli animi e alimentare l’antipolitica è appunto la percezione che il mondo si complica, si fa opaco e funziona in base a sofisticati meccanismi che rendono difficile se non impossibile al comune mortale raggiungere il punto fermo di una qualsiasi verità. Brancoliamo in una quotidiana nebbia di domande irrisolte: dalla pandemia al caro bollette che ci sta massacrando, ci troviamo, per dirla con la nota metafora, nella bolla di un segreto avvolto in un mistero. Mistero che la versione dei fatti fornita dalla politica raramente aiuta a sciogliere e tende, casomai, a velare orientandoci verso spiegazioni periferiche, se non fuorvianti, rispetto alla vera natura dei problemi.
Uno dei vizi capitali delle dittature si sta subdolamente impadronendo nelle nostre democrazie? L’ipotesi eccede in severità, ma meglio tener alta la guardia dell’esercizio critico. Fossero latticini e non parole diremmo che quel che la narrazione politica quotidianamente ci propina è spesso roba scaduta da un bel po’. Il confronto fra Destra e Sinistra, che pure ha diritto e dovere di esistere, continua per esempio ad essere alimentato e argomentato in termini da un pezzo spiazzati dalla storia e dalle effettive dinamiche del mondo contemporaneo. Idem per la filiera delle immaginarie alternative e incompatibilità fra sovranismo ed europeismo, stato e mercato, primato della società o delle istituzioni. Cose che la natura trasversale e interconnessa dei problemi contemporanei ha da tempo ridotto a un logoro fumetto a uso e consumo dei contendenti. Roba vecchia.
Di ben altre combinazioni terapeutiche e soluzioni operative, completamente affrancate da antiche partigianerie ideologiche, hanno bisogno le criticità che dobbiamo affrontare. Le parole chiave sono dunque altre: pragmatismo, conoscenza della verità attraverso un serio approccio analitico ai problemi, sinergia fra pubblico e privato e in fine sussidiarietà. Cioè lasciar fare le cose a chi è in grado di farle meglio, quand’anche sia di rango istituzionale inferiore rispetto all’ente formalmente deputato. Un esempio: se un Comune può rispondere a un’esigenza meglio e più velocemente dello Stato o della Regione, non c’è ragione di intralciarlo. Far ripartire e nuovamente orientare verso lo sviluppo società, economie e territori esige dunque l’attivazione di un ben studiato gioco delle parti fra tutti gli attori del processo. La spontanea vitalità sociale resta un’ottima premessa, su cui non tutti hanno la fortuna di contare, ma se bastava un tempo per far decollare e volare le economie oggi purtroppo non basta più. E’ la filiera istituzionale a
detenere le leve necessarie per fornire ai territori quelle infrastrutture, digitalizzazione in primo luogo, senza le quali la parola sviluppo resta vaga e velleitaria aspirazione senza solidi sbocchi realizzativi.
Il tema sta in questi giorni toccando molto da vicino anche noi cremonesi e la nostra provincia, arenata da tempo in secche da cui non è facile disincagliarsi. Se un percorso risolutivo c’è, certamente non s’annuncia facile o lineare, per varie ragioni. Non ultime i ritardi culturali e le cattive pieghe che ogni attore in commedia ha nel tempo accumulato. A partire dall’attore politico afflitto da un vizio di metodo che da occasionale s’è fatto ormai sistematico: eludere la dimensione concretamente tecnica dei problemi da pesare, misurare, inquadrare e possibilmente risolvere e fuggire lungo la tangente di verbosi proclami, abbastanza generici da metterlo al riparo dalla verifica e dal conseguente giudizio degli elettori circa fallimenti e obiettivi mancati. Ma il tempo stringe e l’inarrestabile impoverimento del nostro territorio dovrebbe essere ragione
sufficiente per archiviare particolarismi, piccole rivalse, istinti impropriamente competitivi e riconoscere che la possibilità di essere risospinti verso prospettive di crescita esige l’adozione di un metodo.
E’ dunque metodo la preziosa quarta parola chiave, dopo sinergia, sussidiarietà e verità. Metodo. E, comunque la si pensi, è stata la ricerca di un metodo a orientare l’Associazione degli Industriali verso le competenze della Fondazione Ambrosetti a cui commissiona da qualche anno studi di settore utili a ricavare un orientamento strategico che identifichi e ottimizzi le potenzialità produttive della nostra provincia. Ma la materia è infiammabile, il terreno minato e anche su questo Blog vivacissime polemiche hanno accompagnato la presentazione del cosiddetto Masterplan 3. Per personale incompetenza mi astengo dagli aspetti tecnici. Ma l’essere cremonese, e cremonese preoccupata, mi autorizza tuttavia a qualche considerazione generale. Il meccanismo messo in campo, e tuttora in rodaggio, è magari imperfetto, le indicazioni fornite
dalle analisi di settore non possono andare oltre il piano dei suggerimenti e delle potenziali direzioni operative che tocca alla capacità dei destinatari convertire in concretezza, incongruenze procedurali e oggettivi errori non hanno adeguatamente coinvolto figure centrali per la realizzazione del piano quali i sindaci. Ma evitiamo che la giusta denuncia dei punti deboli si trasformi in una bocciatura del metodo. Per la prima volta, superando i particolarismi che storicamente hanno fatto del nostro territorio una serie di cittadelle angustamente avvitate su se stesse, i protagonisti istituzionali sociali e politici dello sviluppo si sono messi intorno a un tavolo per cercare una condivisa via di salvezza. Non buttiamo con l’acqua sporca anche il bambino. Ovviamente non è certo che uniti si vinca. Ma, come il passato cremonese insegna, quel che è certo è che disuniti si perde.
Ada Ferrari
2 risposte
Scritto chiaro e puntuale come sempre; la politica (tutta) è destinata a deludere perché non è più in grado di prendere decisioni che invece vengono prese dall’economia…sic stantibus rebus…
Sono perfettamente d’accordo. Il problema di fondo è proprio l’incapacità della politica a formulare proposte e predisporre progetti, perciò delega questa prerogativa ad altri soggetti, in primis ai detentori delle leve economiche.