Mercoledì prossimo, nella elegante Villa Necchi Campiglio, avrò il piacere di intervenire alla presentazione del volume “Giuseppe Martinenghi, la costruzione di Milano nel Novecento” realizzato in collaborazione con Cittadella degli Archivi dal professor Roberto Dulio del Politecnico con Davide Colombo, Andrea Coccoli e le bellissime immagini di Sosthen Hennekam.
Nato a Londra da famiglia lombarda, fu attivo tra gli anni ‘ 30 e gli anni ’60 progettando più di 150 edifici, numéro impressionante che ne fa uno dei più prolifici architetti milanesi, benché considerato uno dei cosiddetti “minori”, tanto che non se ne avevano pubblicazioni. Qualche anno fa Andrea Coccoli, laureando in architettura al Politecnico, passò alcuni mesi nei nostri archivi dando alle stampe una tesi di laurea che ha costituito il punto di partenza di questa pubblicazione, il che conferma ancora una volta quanto gli archivi siano fonte straordinaria di scoperta e riscoperta della nostra storia.
Martinenghi fu anche pittore e designer, come del resto non pochi suoi colleghi di quegli anni, a partire dai ben più noti Giò Ponti e Alessandro Rimini. E anche se “minore”, ebbe l’opportunità di progettare decine e decine di edifici e molto diversi tra loro, cosa oggi praticamente impensabile per chi non sia una “archistar”…
Ben altri tempi, e non solo per la professione dell’architetto. Chi ha progettato case in quei 30 anni a Milano si è confrontato con due momenti cruciali dello sviluppo urbanistico italiano: il Ventennio e la Ricostruzione, l’esigenza di rispondere alle pomposa estetica fascista prima e al realismo piccolo borghese della socialdemocrazia poi.
Fino alla fine dell’800 le nostre città erano di fatto dei frastagliati agglomerati di minuscole fatiscenti casupole popolari che circondavano affollate gli enormi eleganti palazzi aristocratici che si stagliavano splendenti in mezzo a cumuli di miserie.
Sarà l’Unità d Italia, sabauda e filo parigina, a generare l’esigenza di creare nelle città grandi arterie, viali e piazze, e anche a iniziare la costruzione di palazzi per la borghesia, con un appartamento per piano e per famiglia, in una progettazione totalmente differente da quella del grande palazzo aristocratico monofamiliare e ovviamente anche dalla piccola casetta popolare di fortuna.
Mussolini, che proprio a Milano aveva fondato il fascismo nel 1923, volle che la città meneghina fosse il simbolo della modernità del Fascio e diede un impulso impressionante alla architettura cittadina, sia negli edifici funzionali come sedi politiche, ospedali, tribunali e musei, che in quelli residenziali per le fasce meno abbienti della popolazione. Nasce di fatto quella edilizia popolare che tanti architetti ha messo alla prova compreso il nostro Martinenghi, che un po’ come tutti i suoi colleghi segue nella estetica lo stile eclettico e severo a mattoncini rossi e marmi bianchi di Marcello Piacentini, l’architetto del Duce che sarà una sorta di “progettista generale dell’Italia fascista”.
Tutt’altra partita sarà quella che gli architetti si troveranno a giocare nel dopoguerra, con le varie giunte socialdemocratiche alle prese con la delicatissima ricostruzione della città, con da un lato le pretese delle masse popolari già rivolte al benessere del boom e dall’altro l’impegno a far dimenticare le disastrose manie di grandezza del fascismo con delle edificazioni dal tono decisamente più asciutto e modesto ma al contempo pressati dalla esigenza di costruire in fretta e con numeri mai visti prima.
Nato alla fine dell’800 e morto agli inizi degli anni 70, Martinenghi ha disseminato la città di decine di sue tracce che ancora godono di perfetta salute e hanno mantenuto intatta la loro funzione, cosa che a mio avviso sarà assai difficile dire di tanta edilizia frettolosa e iperfunzionale che vediamo crescere oggi.
sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
docente di archivistica all’Università degli studi di Milano