Miriam
… gli occhi
del colore di un certo vento, questo
sempre per me sei stata…
( M. P. )
Sotto un portone di via S. Ennodio, protetti dall’oscurità e dalla nebbia, a pochi passi dal voltone che immette in corso Garibaldi, Miriam e Gherardo – Dino, come lo chiamavano tutti – si baciavano con l’impeto dei vent’anni, prima del distacco serale: ma il loro era un impeto più disperato che gioioso. In quel gennaio del ’44 a Pavia, tutta imbiancata dalla neve, l’allegria si era spenta nella brutalità insensata della guerra e anche gli studenti dell’università avevano persa ogni spensieratezza.
“Vedrai che tutto andrà per il meglio… non devi abbatterti così…” le sussurrava Dino cercando di consolarla; e intanto ne fissava gli splendidi occhi verdi, la cui luminosità non scintillava più nel buio, offuscata com’era da un’angoscia profonda. Miriam si stringeva a lui con tutte le forze… Dio, come amava il suo Dino, come le piaceva! Disinvolto nel tratto e brillante negli studi senza
apparire secchione; sempre sicuro di sé e con quella patina di ribalderia che eccitava la fantasia delle donne… e poi era così bello… somigliava a Massimo Girotti… e com’era appassionato quando facevano l’amore! No, non voleva staccarsene a nessun costo.
“Dino, ho tanta paura… ma non voglio scappare in Svizzera con i miei… tienimi con te Dino, voglio restare con te… nascondimi nella tua cascina a Binasco… chi vuoi che mi cerchi là?”.
“ Non è facile convincere mio padre… ho bisogno di tempo…”
“Ma non c’è tempo!” – esclamò lei in un singhiozzo – “ la Baldini mi ha dato due giorni, al massimo tre, per andarmene… è una brava donna… non ha pregiudizi razziali… anzi, aveva le lacrime agli occhi… ma non ci sono solo io: ha delle altre ragazze a pensione… potrebbero prendersela anche con loro… e poi gli inquilini della casa… qualcuno potrebbe fare la spia…”.
Dino era imbarazzatissimo: aveva parlato della cosa ai genitori, ma non c’era stato verso: non avrebbero ospitato la ragazza ebrea, era troppo pericoloso. Adesso lui pensava di scaricarsi la coscienza accollando la responsabilità a suo padre e però evitava di cercare altre soluzioni che
comportassero dei rischi. Benché Miriam gli piacesse molto e lui ostentasse un atteggiamento sprezzante del pericolo, non era quel cuor di leone che voleva far credere.
“Forse la decisione più saggia è che tu raggiunga la tua famiglia a Orta… e passi il confine con loro. La guerra non durerà ancora per molto… gli alleati non sono lontani… quando torni mi ritrovi, ti laurei e ci sposiamo.”
“Dino, amore… non voglio lasciarti…” – ormai Miriam non tratteneva più il pianto – “non c’è un angolino per me in via Foscolo? Non puoi tenermi lì con te?”
“Sai bene che non è possibile… come si fa? Siamo già in tre… e di Tommaso non mi fido… è un pezzo grosso del GUF…”
In realtà Tommaso era un impolitico e occupava una posizione in vista nel GUF soltanto perché era il capitano della squadra di pallacanestro. Il mattino seguente il cielo era livido; la temperatura si era alzata di qualche grado e una pioggia mista a nevischio infradiciava la neve caduta in abbondanza trasformandola in poltiglia fangosa. Dino si era appena
svegliato quando sentì suonare con insistenza il campanello di strada e si affacciò alla finestra.
“Hanno preso Miriam!” esclamò sconvolta Teresa, la sua compagna di stanza. Dino, con il cuore in subbuglio, la fece salire in casa.
“Aveva deciso di raggiungere i suoi a Orta…” – proseguì Teresa agitatissima – “l’ho accompagnata alla corriera che partiva alle sei e mezza per Mortara, ma sono arrivati i tedeschi con due repubblichini… l’hanno fatta scendere e l’hanno caricata su un camion insieme ad altri disgraziati… ho sentito che li portano a Milano e da lì, col treno, in Germania.”
Dino quasi non la lasciò finire; si vestì in un lampo e, inforcata la DKW, si fiondò verso Milano. La moto sfrecciava spandendo ai lati sbuffi di neve marcia come fosse un motoscafo; al curvone di Binasco rischiò di uscire di strada e incrociando un contadino che spingeva un carretto carico di legna lo schizzò tutto di fanghiglia: quello gli scaricò addosso una litania di improperi, ma lui nemmeno se ne accorse. Passato Rozzano vide in lontananza, seguito e preceduto da due side-car, il camion che trasportava Miriam e gli altri prigionieri. Si calmò un poco e li seguì tenendo una distanza sufficiente a non farsi scoprire. Miriam, sballottata insieme agli altri sventurati sul cassone del camion, si sentiva soffocare dalla disperazione… fissava come in un incubo tutte quelle facce sbigottite e terrorizzate: un ammasso di povera carne prossima
ad affrontare insieme a lei, in un viaggio di sola andata, chissà quali sofferenze. Per trovare un po’ di conforto si aggrappò al pensiero che i
suoi familiari – i genitori e la sorellina dodicenne – avrebbero trovato scampo in Svizzera. Ma soprattutto pensa a Dino, al suo grande amore che non avrebbe più rivisto… avrà già saputo che l’hanno presa? ‘Dino, Dino… perché non mi hai aiutata?’ ripete sommessamente… ma in lei non c’è rancore, lo ama troppo… e intanto il suo sguardo si perde all’intorno… incontra l’espressione dura e impassibile dei soldati… la sola vista dei loro elmetti le raggela il sangue. Infine riesce a rannicchiarsi in un angolo stringendosi le ginocchia al petto… vi affonda la fronte… e mentre lacrime silenziose scendono ad inondarle il viso sussurra, come in una nenia, la canzone di un’altra Miriam, quella dell’Esodo: “Voglio cantare il nome del Signore perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare il cavallo e il cavaliere…” ma non ci sono le acque del Mar Rosso ad aprirsi davanti a lei, né si sarebbero richiuse sui suoi persecutori per salvarla…
Dino abbandonò la moto in via Pacini, davanti al cinema, e si avviò a passi rapidi verso la stazione di Lambrate: si tratteneva a fatica dal correre per non dare nell’occhio, anche se con l’ansia che aveva addosso si sarebbe figurato di volare. Sul piazzale antistante c’erano altri camion uguali a quello su cui aveva viaggiato Miriam: adesso erano vuoti. Entrò nell’androne e si precipitò sulla banchina: vide, a un binario distante un centinaio di metri, che i tedeschi caricavano tutta quella gente su dei vagoni merci: li sospingevano urlando “Schnell! Schnell! ” e li colpivano con il calcio dei fucili. E vide anche Miriam. Riconobbe la cascata di capelli fulvi – la mia ‘gatta rossa’ la chiamava nell’intimità – ondeggiante mentre lei incespicava e si manteneva a stento in equilibrio nella calca dei deportati. Non gli restava altro che piangerla… e si abbandonò su una panca scoppiando in lacrime senza ritegno, forse per la prima volta nella vita.
In quel momento passava davanti a lui un ferroviere di mezza età che, guardatosi intorno preoccupato, lo prese energicamente per un braccio e lo trascinò con sé rimproverandolo. “ Uèi ti, fa no el pistòla… fa minga inscì, ostia! te capìset no che se te vèden i tugnìn… quèi càncher te càrghen sü anca ti? ” e Dino si lasciò portar via docilmente. Ormai cosa avrebbe potuto fare?
Finita la guerra, Dino si laureò in medicina e rilevò un ambulatorio dentistico a Binasco, dove iniziò a far pratica sotto la guida del vecchio
dentista del paese. Non aveva però dimenticato la sua ‘gatta rossa’ e, spinto anche dal rimorso di non averla saputa aiutare, si diede a cercarla con un impegno inusuale per il suo carattere. Ma non riuscì a rintracciare chi gli potesse dare notizie di lei. I genitori e la sorellina di Miriam non avevano mai raggiunta la Svizzera: erano stati arrestati da una pattuglia di frontiera delle Brigate Nere a poche centinaia di metri dal confine e, consegnati ai tedeschi, erano finiti a Buchenwald, da dove non erano più usciti. Restavano alcuni cugini di terzo o quarto grado a Torino, ma anche loro non sapevano nulla. Si rivolse allora agli uffici diplomatici, alle associazioni ebraiche e si spinse, tra le macerie e i cantieri di una Baviera che si avviava alla ricostruzione, fino a Dachau dove – aveva infine saputo – era diretto il treno su cui Miriam era stata caricata: ma lei non risultava né tra i morti, né tra i sopravvissuti del lager. Non era raro che alcuni morissero nei vagoni piombati già durante il viaggio e dopo tutto – gli fu detto chiaro e tondo – si potevano considerare tra i più fortunati. Miriam doveva essere una di loro.
Subito dopo la specializzazione in odontoiatria, Dino aprì un altro ambulatorio – arredato con lusso e dotato di apparecchiature modernissime – in centro a Pavia: essendo ricco di famiglia i costi di avviamento erano l’ultima delle sue preoccupazioni e, grazie anche alle conoscenze giuste, si fece in breve un’ottima clientela. Quando si dice che soldi fan soldi… Disponeva – gli va riconosciuto – di una mano abile, leggera e precisa; nel trattare con le signore aveva un modo di fare intrigante; con i mariti – naturalmente gente arrivata – faceva il simpaticone che la sapeva lunga; mentre con le signorine da marito della crème sfoderava un atteggiamento rassicurante da magister vitae, ma di fatto insidioso. Era riuscito per anni a schivare il cappio matrimoniale, pur avendo il letto sempre ben frequentato, finché l’assedio delle amanti in corsa per l’esclusiva non si fece insostenibile e lo costrinse a dare una sterzata brusca alla propria vita sentimentale: insomma si sposò. La cerimonia fu celebrata alla Certosa e i festeggiamenti, è inutile dirlo, furono sfarzosi al limite del buon gusto: gli invitati in gran numero, ma rigorosamente selezionati, e molti i nomi illustri. Ciò fece sì che le amanti deluse, invitate a quella kermesse di grande prestigio mondano, si acquietassero nella soddisfazione di avervi partecipato; e comunque più d’una si riprometteva di non trascurare in
futuro ogni buona occasione per un revival… Milly – la sposina, di una quindicina d’anni più giovane di lui -apparteneva ad un’agiata famiglia di Voghera, farmacisti da tre generazioni. Era una bella ragazza, molto giudiziosa e tutta compresa nel suo nuovo ruolo di moglie: nel giro di tre anni gli sfornò due bei marmocchi, Adele e Cesare.
Ormai era rarissimo che a Dino tornasse in mente Miriam – relegata com’era in un ripostiglio remoto della sua memoria – e se per qualche
accidentale associazione di idee gli capitava di pensarci, il ricordo era vieppiù sfumato. Tranne una volta, quando – con alcuni amici e senza
mogli – si era concesso una settimana di baldoria al fasching, il carnevale di Monaco. Una notte – nella baraonda delle feste in costume, delle bevute di birra e delle facili avventure – aveva dimenticato, nell’area riservata al passaggio dei carri mascherati, la macchina, che fu puntualmente rimossa dal carro attrezzi della polizia. Quando andò a recuperarla – in un parcheggio immenso a una quindicina di chilometri da Monaco – si ritrovò con sorpresa a Dachau: fu assalito da un’ angoscia improvvisa e dolorosa; ma subito si costrinse a reagire, rispedendo Miriam in quell’angolino ai limiti dell’oblio dove era confinata da anni. Dino aveva un talento speciale per semplificarsi la vita, per far sì che
tutto gli scorresse via liscio come l’olio: le asperità, quando si presentavano, venivano smussate o ignorate aggirandole. In ciò la fortuna
gli aveva sempre dato una mano, non poteva proprio lamentarsi: i mezzi non gli mancavano, la salute era buona, i figli non gli davano
preoccupazioni e la moglie era una bella bambola che pendeva dalle sue labbra. ‘Niente e nessuno può più rompermi i coglioni’ era il suo motto. Insomma, incarnava in tutto e per tutto il sogno del suo status sociale.
“Ciccio, ti sbrighi?” cinguettò la voce della Milly dalla camera da letto. Dino, in bagno, stava lottando con i gemelli che non volevano entrare nei polsini della camicia: era infastidito da quel vezzeggiativo; glielo aveva detto mille volte, ma non c’era verso… era più forte di lei. Pensò che in fondo qualcosa doveva pur concederle, non poteva lamentarsi del brodo grasso e così le rispose semplicemente: “Sono quasi pronto.”
Era il suo sessantesimo compleanno e l’avrebbe festeggiato al Rotary di cui proprio quell’anno era presidente. Nell’occasione avrebbe comunicato la meta della gita sociale, concordata con monsignor Cebrelli, il cappellano del club, dove ogni sfumatura dell’originario laicismo
massonico era ormai sparita da tempo. E dunque per Pasqua avrebbero passato una settimana in Israele e visitato i luoghi santi della Palestina.
Sul lungomare di Haifa i gitanti, in piccoli gruppi sparsi, guardavano affascinati il grande disco rosso del sole che si abbassava all’orizzonte per offrirsi all’abbraccio del mare: era un tramonto che appariva loro come una smagliante gigantografia di quelli cui erano abituati. La gita era alle sue battute conclusive: tra qualche ora il Rotary locale li avrebbe salutati con un meeting di gala e l’indomani mattina un volo charter li avrebbe riportati a casa. Dino si era tenuto un po’ in disparte, assorto: aveva la luna per traverso e non ne capiva il motivo. Un cicaleccio di voci infantili lo riscosse: si accorse che venivano verso di lui dei bambini – una ventina circa – in età scolare, disposti ordinatamente in doppia fila, e si scansò per cedere loro il passo. Alzò lo sguardo verso l’accompagnatrice che chiudeva il gruppo e rimase fulminato da due splendidi occhi verdi. Fu un attimo, ma anche in quegli occhi balenò un lampo di sorpresa che si spense subito nell’indifferenza più totale. Il volto della donna era solcato da una miriade di rughe sottili dovute alla prolungata esposizione al sole mediorientale, ma l’incedere era spavaldo e il corpo ancora flessuoso; la folta massa di capelli, in gran parte grigia, era ravvivata qua e là da luminosi riflessi ramati: da giovane doveva essere stata bellissima… Dino rimase impietrito e non seppe far altro che osservare quella apparizione allontanarsi e scomparire dietro l’angolo della strada. Era Miriam, non poteva sbagliare… anche lei l’aveva riconosciuto, ne era certo. Allora non era morta… ma com’era possibile? Poi si rese conto che quella donna – ancora affascinante – da giovane era stata di una bellezza straordinaria… ricordò il suo temperamento appassionato, ma non solo… la sua vivacità intellettuale da cui poteva trarre mille risorse… e sicuramente si era salvata ricorrendo con la forza della disperazione a quel patrimonio di natura… e lui, coglione, l’aveva lasciata andar via… non aveva fatto tutto il possibile per non perderla… forse un ufficiale delle SS se ne era innamorato… o meglio, un medico del lager… sì, ne era convinto, un collega tedesco l’aveva salvata… e l’ovvietà del baratto offerto da Miriam per eludere le sofferenze della prigionìa e la morte gli strinsero la gola con un nodo doloroso. Ebbe la certezza che da quel momento e per il resto della vita sarebbe stato tormentato dai rimpianti e dai morsi di una gelosia che poteva apparire irragionevole, ma non per questo era meno feroce.
“Ciccio, cosa fai lì impalato?” La voce della Milly, bamboleggiante, gli sembrò insopportabile: come avrebbe vissuto d’ora in avanti, giorno dopo giorno? Eppure avrebbe dovuto rassegnarsi… non aveva vie di scampo.
“Ma Ciccio, siamo in ritardo! Dobbiamo tornare in albergo a prepararci…” insistette la Milly.
Poi lo guardò sbalordita e la sua voce si fece pignucolosa. “Che faccia hai…stai poco bene? E gli occhi… hai gli occhi rossi e gonfi… ma cos’è che c’hai… piangi?”
“ Ma no!” – rispose secco Dino – “ con tutta questa sabbia deve
essermene entrata un po’negli occhi.”
“ O Signore! Ma non preoccuparti, che la tua Millina in albergo ti mette
il collirio e sistema tutto.”
Quella sera Dino si sentiva infelice come non era mai stato. Ma era
soltanto l’inizio: ancora non lo capiva, ma stava precipitando nel pozzo
senza fondo della melanconia e della depressione.
Gianni Carotti
Tratto da “L’occhio di Samuele“ – Racconti – Ed. Campanotto
2 risposte
Caro Gianni,
bello, ma triste. Molto. Ti induce a riflessioni che vanno ben oltre la sua conclusione.
Un abbraccio
È un racconto bellissimo! Tanti complimenti a un vecchio amico.