Spiace molto dichiararlo ma il Dario (Argento) nazionale manca il bersaglio, e di molto, con questo suo Occhiali neri, la brutta copia (è il meglio che si può dire) dei suoi gloriosi film precedenti, soprattutto dei primi tre. Nelle sequenze iniziali un’eclisse paralizza per qualche tempo la vita della città, e attira l’attenzione di una escort (una pessima Ilenia Pastorelli), che si sta recando ad un appuntamento. Si tratta di un espediente non nuovo nel cinema di Argento (basta pensare a Suspiria e alla Terza madre) per suggerire un’atmosfera stregata, di maleficio, ed indicare una direzione a quanti vogliono entrare nel cuore del film. La pretesa viene completamente disillusa dalla scombiccheratissima trama (ma questo fa molto Dario Argento), che si muove in tutt’altra direzione: la ragazza, cieca a causa di un un incidente, viene perseguitata dal solito serial killer (cfr. L’uccello dalle piume di cristallo), che la incalza eliminando tutti i suoi amici e costringendola in una palude dove albergano (e questo è davvero troppo anche per lui) bisce d’acqua che si avvolgono attorno al corpo e lo stritolano come boa constrictor: il tutto punteggiato da momenti di varia efferatezza (dal taglio alla gola allo sbranamento), che colpisce per la sua goffaggine, e rendono eleganti persino i sadici ammazzamenti dei film precedenti (fa parziale eccezione la prima aggressione con arma da taglio, coperta da un cespuglio, forse citazione da M di Fritz Lang, in cui il killer si acquatta dietro un arbusto come una belva nella giungla). L’espediente che sembra più originale, ovvero la cecità della protagonista, era in realtà già stato sfruttato ne Gli occhi della notte di Terence Young, con Audrey Hepburn, che a sua volta mirava, nella sua menomazione e nella sua fragilità, a suscitare l’empatia e l’immedesimazione dello spettatore. Qui Argento, accanito lettore di Freud, pone forse la cecità come simbolo dell’impotenza, accentuando appunto il destino di vittima perseguitata della ragazza.
Il puntiglio nel citare la ripresa, in questo film, di situazioni già ampiamente viste in altre opere del regista è voluto. Si sa che l’autocitazione (classico stilema postmoderno) non deve essere posto a carico dell’autore, dal momento che è parte essenziale del suo modo di fare cinema (comunque lo si voglia giudicare), ma in questo caso pesa in maniera significativa sull’effetto finale: la stessa ambientazione, o un analogo effetto di suspense, risultano qui goffi e contraffatti, come se il regista rifacesse la brutta copia di sé stesso. Allo stesso modo disturba relativamente il fatto che la trama si ponga come una variazione dei tipici intrecci giovanili di Argento (fra l’altro, sembra che la sceneggiatura, scritta con Franco Ferrini, risalga a molti anni fa e che sia stata tenuta nel cassetto a lungo). La delusione nasce dal fatto che lo script sia stato malamente tradotto in film, con un ritmo lasco, con molte (troppe) scene inerti, con solo qualche fulmineo tratto della capacità del regista di creare un’atmosfera di angoscia, filmando gli esterni dei palazzi e concentrando l’inquadratura su oggetti banali, che sembrano carichi di un potere malefico.
Occhiali neri giunge al termine di una ormai lunga serie di opere mediocri, che hanno di molto appannato la gloria del grande Dario. Ai suoi fans, che hanno sperato in un ultimo colpo d’ala, non rimane che scuotere tristemente la testa: il loro idolo è ormai precipitato in una decadenza inarrestabile, tanto più evidente se si pone mente ad un capolavoro come Il signor diavolo di Pupi Avati, frutto di una splendida vecchiaia.
Vittorio Dornetti