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Omaggio a Moroni, surreale pittore avanguardista del ‘500

11 Dicembre 2023

Non poteva chiudersi meglio l’anno che ha visto Bergamo e Brescia capitali italiane della cultura, con la più grande mostra mai realizzata su Giovanni Battista Moroni, il più importante pittore bergamasco del ‘500 dopo il Caravaggio, nonché allievo del più importante pittore bresciano del suo tempo, il Moretto.

Oltre 100 dipinti provenienti dalle collezioni di tutto il mondo che regalano un magnifico spaccato sul Manierismo lombardo (e non solo), in uno sforzo allestitivo senza precedenti che conferma il polo museale della banca milanese come straordinario valorizzatore della nostra pittura lombarda.

Non è un fuoriclasse il Moroni, e qualche tela sparsa qua e là nella mostra lo conferma: un Lorenzo Lotto e un Tiziano balzano subito all’occhio più di lui, e perfino il Campi mette negli occhi del marchese Vespasiano Gonzaga un fascino che al bergamasco manca. Tuttavia sì rimane davvero impressionati dalla sempre altissima qualità della sua pittura in rapporto alla sterminata quantità di opere realizzate soprattutto a cavallo del 1550, che denotano una capacità di lavoro davvero impressionante.

Il ritratto è certamente il tema centrale della mostra, ritratto ovviamente su commissione aristocratica: una affascinante galleria di ricchi signori e signore decisi a lasciare la propria traccia nella storia mettendo in mostra quanto di più prezioso possedessero.

In molti casi non si tratta di una nobiltà di altissimo rango, e infatti il Moroni tradisce nei volti una certa rigidità, oserei perfino dire una decisa “bergamaschità“ nelle faccione rubizze e squadrate dei suoi soggetti anche femminili, che rispetto ai Lotto e Tiziano non reggono il confronto.

Eppure questa esposizione mostra sorprese davvero inattese: la finezza di dettaglio degli abiti lascia a bocca aperta, con una capacità pittorica che è solo dei  grandi maestri: i broccati floreali delle grandi dame brillano dei colori più vivaci, mentre nei velluti dei severi gentiluomini emergono con sorpresa dettagli di pellicce finissime e ricami di pizzi davvero incantevoli, segno che il Moroni è ben più grande di quanto appaia nei volti.

C’è poi una ampissima e splendida sequela di enormi tele a tema religioso e di  pale d’altare di sapore tutto leonardesco che celebrano quella Chiesa del pieno Rinascimento ricchissima, festosa e forse un po’ pagana che fece dell’arte la celebrazione della propria gloria terrena.

Qui tutto è Maniera: i volti della donne sono quelli intelligenti ed eterei di Leonardo, l’unico vero pittore della donna intellettuale e sofisticata, né prostituta né santa. E i colori sono quelli, indiscutibilmente, della Cappella Sistina di Michelangelo: un incantesimo che per decenni rese tutti schiavi del colore… tutti gli artisti dell’epoca dopo le sconvolgenti vette raggiunte da Leonardo, Michelangelo e Raffaello non poterono che dipingere alla loro “maniera”, dando appunto origine ad una delle correnti pittoriche ancora oggi più discusse della Storia, Il Manierismo.

Una corrente che il grande Roberto Longhi detestava profondamente, ma che ha avuto estimatori illustrissimi come Federico Zeri e Achille Bonito Oliva, che la définisce addirittura una pittura astratta. E in effetti lo diviene, perché i soldati romani con le corazze rosa e verdi e azzurre non possono che essere astratti e non esistiti, così come i corpi grigi coi panni arancioni dei Cristi in croce che campeggiano nell’ultima sala, quella dove oramai il Concilio di Trento e la Controriforma cattolica hanno imposto morigeratezza e pauperismo; non più trionfi di vescovi e santi circondati da splendidi troni dorati e tappetti finissimi, ma ruvidi francescani penitenti sotto a crocefissioni tetre e cieli dai grandi gesti grigi. È una pittura che usa il colore per rendere uno stato di animo psicologico che nulla ha a che vedere con la realtà.

A conferma che quella pittura che definiamo “classica” e comprensibile in realtà è lontana da noi anni luce, ed è molto meno realista di tanta arte contemporanea che invece ci pare astratta.

Chiude la mostra un quadro impressionante del maestro del Moroni, quell’Alessandro Bonvicino detto il Moretto: un Cristo morente dove tutto è grigio come la disperazione; grigio è il sepolcro di pietra, grigio l’Angelo piangente che domina la scena e grigio perfino il corpo gigantesco del Cristo, un quadro che potrebbe tranquillamente essere stato dipinto 300 anni dopo da Bougereau e dagli accademisti francesi e che conferma la surreale dimensione avanguardista di questi pittori.

 

Francesco Martelli

sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

docente di archivistica all’Università degli studi di Milano

cremonasera.it

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