A Palazzo Reale a Milano è aperta una bellissima mostra su Giorgio Morandi, il grande pittore bolognese che è entrato nella storia dell’arte grazie alle sue bellissime nature morte minimaliste e metafisiche, tra le opere ancora oggi più richieste dai collezionisti di tutto il mondo. Da trent’anni a Milano non si teneva una retrospettiva integrale sul Maestro, e questa mostra di oltre 100 opere curata da Maria Cristina Bandera merita certamente una visita.
Oltre a tantissime nature morte con le celeberrime bottiglie esagonali che hanno fatto di Morandi uno dei più noti artisti italiani del ‘900, ci sono moltissimi vasi di fiori, ma non quei “Fiori di topinambur” o ‘Fiori 1943” che sono stati oggetto (e lo sono tutt’ora) di una lunga battaglia tra un industriale lombardo e la Sovrintendenza.
Sì tratta di un’opera che fu venduta da Morandi negli anni ’50 alla famiglia Plaza, proprio quelli degli hotel Plaza, magnati della industria alberghiera che a Caracas hanno costruito oltre agli alberghi anche una straordinaria collezione di arte. Alla fine degli anni ’90 la collezione venne smembrata e venduta, in buona parte dalla casa d’aste Sotheby’s, e il quadro tornò in Italia acquistato da un industriale brianzolo cui il Consiglio di Stato con una difficilissima sentenza dello scorso maggio e su ricorso della Sovrintendenza, ha impedito di far uscire dall’Italia.
La questione delle opere d’arte italiana in giro per il mondo è annosa, ma le controversie tra mercanti e collezionisti da un lato e Sovrintendenze e Stato italiano dall’altro si sono sempre più inasprite soprattutto negli ultimi decenni, quando cioè si sono aperte nuove economie con nuovi ricchi da nuove parti del pianeta.
Fu il Regime Fascista il primo a imporre la così detta “notifica” allo Stato dei beni culturali di interesse nazionale da parte dei privati, in parte al fine di arrestare una vera e propria emorragia di arte italiana verso Inghilterra e USA, che per scopi commerciali dagli anni 20 e fino alle fine degli anni 50 vide migliaia e migliaia di nostre opere lasciare palazzi e chiese alla volta di collezioni e musei angloamericani.
La legge Bottai venne promulgata nel 1939, ma la guerra ne annullò de facto gli effetti, tanto che nel 1948 la neonata Repubblica italiana dovette emanare una nuova legge sulla notifica e l’esportazione delle opere d’arte italiane in possesso dei privati. In quei circa 30 anni a cavallo tra le due guerre, i grandi magnati americani riempiono le loro collezioni della nostra arte, le quali sono poi confluite, anzi hanno proprio costituito, le principali gallerie nazionali americane: Kress, Mellon, Getty, Walters etc…
A far da tramite tra i ricchi americani che compravano e le famiglie aristocratiche italiane che vendevano furono figure leggendarie di mercanti e storici dell’arte come Berenson, Langton Douglas, Perkins, Longhi, Venturi, Wildenstein e Rosenberg …e soprattutto il conte italiano Alessandro Contini Bonacossi (nella foto centrale). E proprio il suo fu il caso più noto ed eclatante: figlio di un commerciante ebreo e di una nobildonna fiorentina, si fece strada con una straordinaria abilità commerciale mescolata ad una notevole spregiudicatezza e ad una incredibile vitalità, divenendo il più grande mercante d’arte del suo tempo, grazie anche alla collaborazione della moglie Erminia Vittoria Feroldi, figura avventurosa e affascinante che da figlia di piccoli latifondisti cremonesi di Robecco d’Oglio si impose nei più grandi circoli del collezionismo mondiale.
Alla sua morte nel 1955, il conte Contini lasciò ai figli una eredità astronomica: 300 miliardi di lire dell’epoca in soli beni immobili. Faccio presente che come ricordato da Antonio Paolucci, all’epoca con 1 miliardo si potevano comprare venti appartamenti in centro a Firenze… Ma oltre ai beni immobili, c’era in ballo la sua incredibile collezione d’arte italiana, fatta di migliaia e migliaia di opere. Già durante il Fascismo, Contini in cambio della nomina a senatore a vita e al titolo di Conte, si accordò per lasciare dopo morto allo Stato italiano la sua collezione, purché rimanesse esposta a Firenze nella sua Villa.
La fine del Regime e poi la morte del Conte furono ovviamente l’occasione per rivedere gli accordi, consentendo agli eredi di vendere buona parte della collezione all’estero. Ed ecco che torniamo alla questione di partenza: le Sovrintendenze di allora ovviamente non ne volevano sapere, e si dovette arrivare addirittura ad un decreto del presidente della Repubblica Saragat, per consentire di superare l empasse istituzionale, tale era l’entità, culturale ma anche patrimoniale, dei beni in questione. Fu addirittura costituita una commissione nazionale dei massimi esperti d’arte italiana per operare la selezione di opere che lo Stato avrebbe potuto acquisire e trattenere, rispetto a quelle che la famiglia avrebbe poi venduto ai collezionisti di tutto il mondo. E così avvenne, non senza polemiche e decisioni drammatiche.
Francesco Martelli
sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
docente di archivistica all’Università degli studi di Milano