GLI EDITORIALI DI ADA FERRARI
Una Cremona impoverita e mortificata è da tempo alle prese con una delle stagioni più ingrate della sua storia recente. E cosa in concreto significhi lo vediamo ogni giorno nella penitenziale liturgia delle luci che si spengono e delle saracinesche che si abbassano. Compare un ‘Affittasi’ che di lì a poco sarà convertito in un ‘Vendesi’. Il centro storico di Cremona alza bandiera bianca. Intanto, l’avanzata di capitali asiatici di non sempre trasparente provenienza fa il suo gioco nel ridefinire gli assetti proprietari del nostro patrimonio immobiliare. Il che getta sul futuro ombre preoccupanti. Se infatti è vero che ‘sapere è potere’, più che mai vero, in questo caso, è che ‘avere è potere’. Restare almeno azionisti di maggioranza di muri e beni del proprio territorio garantisce a una comunità, autenticamente e non solo formalmente libera, il più prezioso dei poteri: il diritto alla autodeterminazione riguardo al proprio presente e al proprio futuro.
Pur senza sottovalutare il peso d’una quantità d’altri fattori, appare indubbio che riguardo alla desertificazione
commerciale del cuore cittadino l’imputazione più pesante sia a carico di quella dissennata proliferazione di centri commerciali che inizialmente si giovò anche dello zampino di una Regione Lombardia tutt’altro che insensibile al business dei supermercati. Il fenomeno, in atto ormai da decenni, ha via via modificato i comportamenti collettivi e spinto i consumatori cremonesi in direzione centrifuga rispetto al centro storico, decretandone così l’inesorabile declino commerciale e sociale. I nostri sindaci hanno detto troppi sì alle grandi catene di distribuzione multinazionale pur potendo dire, almeno da un certo momento in poi, altrettanti ‘no’. Ed ora, a disastro conclamato e polemica esplosa, si tenta di cavarsela riducendo critiche e dissensi a manifestazione di provincialismo, se non addirittura di un senile sentimentalismo, nostalgico della Cremona che fu e incapace di riconoscere gli inarrestabili diritti del ‘nuovo che avanza’. E che, in quanto nuovo, è per definizione -sempre e comunque- dalla parte giusta della storia.
Personalmente, non vedo quale male ci sia in un provincialismo semplicemente inteso come realistica consapevolezza d’essere figli e prodotti di una storia provinciale e non metropolitana. “Italia, paese delle cento città” recita un celebre logo. E vorrà pur dir qualcosa. Per esempio, che a differenza di altri Paesi europei pervenuti molto prima di noi all’unità nazionale e alla forma-stato, l’Italia ha alle spalle tutt’altro cammino. Allo Stato unitario siamo arrivati tardi, il che costrinse i suoi nuovi titolari a farsi strada con estrema fatica in un immaginario collettivo affettivamente vincolato a un lunghissimo vissuto popolato di campanili, torri civiche, libertà comunali e vitali localismi. E chi meglio di Cremona, nel linguaggio esplicito del suo impianto urbanistico, della sua toponomastica, dei suoi palazzi e delle sue torri, può testimoniare la straordinaria vitalità di un’esperienza comunale che affonda le sue radici nel Medioevo? Maturano lì le virtù civiche, l’orgoglioso attaccamento ai valori di libertà e autonomia, la laboriosa intraprendenza che consentì al popolo minuto di artigiani e commercianti di raggiungere una prosperità economica presto convertita in adeguato peso politico. Tant’è che, con la grinta competitiva tipica dei ceti in ascesa, si costruirono intorno alla metà del tredicesimo secolo un proprio quartier generale da contrapporre alla sede comunale dei notabili. E fu così che nacque palazzo Cittanova. Sì, proprio lui, il bel palazzo-fortezza sotto i cui possenti portici sostano oggi balordi strafatti e i bravi cremonesi portano il cane a fare pipì. Per secoli quell’ascensore sociale che stiamo a fatica tentando di rianimare, a Cremona funzionò benissimo producendo gran parte degli ingredienti di quel che a tutt’oggi comunemente s’intende per identità cremonese. A cominciare da quella solida concretezza che si scelse per santo patrono non un asceta, un eremita o un intellettuale ma un laborioso mercante di stoffe.
Ma eccoci al punto cruciale. Esiste ancora un patrimonio identitario cremonese, riserva di forze morali cui attingere in una fase di grande criticità? Probabilmente sì. Rimodellato dal tempo, appannato, impigrito da un diffuso costume di fatalistico scetticismo. Ma, soprattutto, intimidito da chi, facendo uso culturalmente distorto e denigratorio della parola ‘provincialismo’, lo costringe ai margini del dibattito sul presente e sul futuro di Cremona. E’ sensato ridurre a patetico sostenitore del ‘piccolo mondo antico’ chi chiede che si arresti, con ogni strumento a disposizione, il degrado che specie negli ultimi tempi tiene sotto schiaffo la città? E basti l’esempio fresco di cronaca, cronaca nera purtroppo, di piazza Risorgimento che, parte integrante della storica porta Milano, è ormai uno spazio di sporcizia e degrado in via di diventare salotto buono di una criminalità importata e sostanzialmente tollerata? E’ sensato ritenere sterilmente nostalgico e perdente in partenza l’appello per un ripopolamento commerciale del centro cittadino qualitativamente coerente con la nostra identità storica e il suo tradizionale decoro estetico?
Le periferie sono tutte uguali. I centri storici invece, specie nel Paese delle cento città, racchiudendo lo spirito del luogo, ne concentrano il più alto potenziale economico. Un provincialismo intelligentemente praticato può dunque avere mente più aperta, più larghi orizzonti e più realistico intuito imprenditoriale di tanti sedicenti ‘cittadini del mondo’ che spesso nascondono dietro montagne di retorica globalista e futurista vuoto di idee e di concreta capacità operativa. Smettiamola
dunque di figurarci un inesistente conflitto fra presunti rischi del provincialismo conservatore e prodigiose facoltà del globalismo progressista. Chiediamoci piuttosto di quale qualità sia la materia grigia che c’è dentro le teste. Quello conta davvero e fa la differenza. E disgraziatamente quella qualità, da parecchio tempo ormai, è tutt’altro che eccellente.
Ada Ferrari
4 risposte
Buongiorno professoressa Ada, a livello personale ho sempre pensato che quel “provincialismo”, che molti pronunciano digrignando i denti a mo’ di insulto, abbia dato origine ad alcune delle menti più raffinate nei mestieri e nelle arti e non soltanto a livello locale. Sono quell’eredità di talenti e capacità grazie alle quali possiamo ancora sopravvivere. Guardando a quel globalismo, che di progressista ha poco se non l’anonimato del pensiero, il digrignare sparisce per trasformarsi nel prossimo futuro in un urlo di dolore. La deriva sembra più rivolta verso quella forma di pensiero, ormai soltanto social, che racconta di grandi novità e idee geniali le quali, alla fine, analizzate bene, non sono altro che il riproporre pezzi di storia e cultura lasciati da quei provinciali decenni o secoli fa. Saluti
Analisi pienamente condivisa.
A questa deve seguire petò la “volontà ” di un progetto che parta dalle memoria storica e dalla consapevolezza di un”appartrnenza che ci identificatifica come cittadini. Per questo come Italia Nostra tentiamo di opporci alla svendita della Città.
Concordo e penso che senza un adeguato sforzo educativo e formativo da indirizzare ai giovani per stimolarne una ‘ cittadinanza identitaria’ nutrita di memoria storica locale, ogni altra strada sia vana. La battaglia contro la svendita della città è preziosa.
Non ho mai capito cosa ci sia di “progressista”, di edificatamente innovativo, a “svendere” il nostro territorio, a partire dalle mura, a capitali stranieri di più o meno oscura provenienza. Analogo trattamento vale per i prodotti nazionali, a partire da quelli alimentari, che la cd Europa “sorprendentemente” anziché valorizzare, come quelli di tutti gli Stati dell’unione, cerca di boicottare per stucchevoli questioni sanitarie o a vantaggio di prodotti esotici o addirittura sintetici come la famosa bistecca , che “stranamente” trova grande pubblicità anche sui mass media nazionali. In definitiva, capire chi e che cosa si vuole veramente agli alti livelli è una matassa “sempre più intricata da sbrogliare”. Ricordo anni fa grandi campagne contro la globalizzazione, soprattutto a sinistra. Ora tra chi sosteneva questa lotta sacrosanta, sembrano proliferare le schiere di chi si è convertito alla logica del profitto senza guardare più in faccia a niente e a nessuno, neppure se si dovessero portare a trovare infelice sepoltura nel Mare Nostrum per decine di migliaia di sventurati.