Il disastro che (forse) ci stiamo lasciando alle spalle ha messo in luce un’organizzazione sanitaria che è riuscita in qualche modo a non farsi travolgere del tutto dalla pandemia solamente grazie alla dedizione, all’impegno ed al sacrificio dei dipendenti sanitari. Una tenuta parziale su di un problema che ha tuttavia messo in secondo piano tutto il resto, cioè quello che costituisce l’oggetto dell’assistenza sanitaria in tempi normali e le cui conseguenze ci impegneranno per molto tempo a venire.
Se dovessimo quindi analizzare la recente performance dei sistemi sanitari regionali e valutarne gli esiti, qualche domanda sarebbe legittima e molti dubbi sarebbero leciti. E tuttavia, come è stato detto, è il sistema sanitario nel suo insieme che dovrebbe essere l’oggetto di una revisione profonda, non solamente l’ospedale: l’assistenza sanitaria si svolge infatti sia dentro che fuori le mura ospedaliere ed è molto difficile separare i due mondi, sia in termini di esiti che di organizzazione che di aspetti economici.
Oltre a tutto, sembra di essere di fronte ad una prospettiva di modello ospedaliero che tiene in gran conto le spinte e le esigenze di lobbysti, politici e professionisti ingordi e famelici, e molto, molto meno le osservazioni che vengono dal mondo degli operatori sanitari, in particolare dei medici che oggi, a pericolo (forse) scampato, tornano ad essere messi in disparte, del tutto esclusi dalla possibilità di ri-pensare e ri-organizzare la sanità, dentro e fuori gli ospedali.
Purtroppo, anche nel PNRR e molto prima del discorso ‘come vogliamo l’ospedale’, manca un punto fondamentale: ci si dimentica che l’investimento migliore è sempre sulla qualità, sul coinvolgimento, sulla motivazione del personale e che la differenza la fanno le teste pensanti, non le strutture edilizie.
Sembra invece che a nessuno importi di investire sulle intelligenze e sulle persone e che pochi si accorgano che la differenza tra una sanità buona ed una meno efficiente/efficace non risiede esclusivamente nel livello degli investimenti in edilizia e tecnologia. Che certamente rappresentano fattori importanti, ma che forse da soli non sono sufficienti a lasciarci alle spalle la crisi attuale.
E’ sotto gli occhi di tutti che molte strutture ospedaliere a padiglioni ottocenteschi forniscono al paziente percorsi diagnostici e terapeutici di livello elevatissimo e che invece alcune costruzioni assai più recenti non raggiungono lo stesso grado di affidabilità: costruire un ospedale antisismico è una bellissima idea, anche se magari in previsione di un terremoto dovrebbero essere previste non solamente le opere edilizie, ma anche e soprattutto piani di emergenza, organizzazione del territorio, squadre di intervento, informazione alla popolazione, organizzazione dei soccorsi, catena di comando. Se tutto questo manca e per di più il personale ospedaliero è emarginato, demotivato e frustrato, alla mercè di dirigenti che pretendono solamente obbedienza, allora avremo bellissimi ospedali che sfidano impavidi gli eventi sismici e si ergono, nella loro sfavillante bellezza, in un deserto di macerie e disperazione.
Rivedere e ripensare l’organizzazione sanitaria ha poco a che vedere con l’edilizia. Responsabilizzare il personale sanitario e renderlo più motivato di come si trova adesso non è un problema di soldi, ma di intelligenza. Rivedere le procedure burocratiche, arrivare a considerare la parte amministrativa delle strutture sanitarie come una componente importante per la soluzione dei problemi e non come ‘il problema’ forse non costa nulla. Recidere il tenace cordone ombelicale tra i politici/politicanti (non la Politica) e le responsabilità delle direzioni degli ospedali non ha per nulla bisogno dei fondi Europei.
Anche ridimensionare il ruolo degli ‘esperti di economia sanitaria’, ma che forse sarebbe meglio identificare come ‘esperti contabili’, quelli incapaci di ogni progetto che non sia quello di trasformare i luoghi e le modalità di assistenza sanitaria pubblica in modelli ispirati alle teorie della produzione industriale/automobilistica non richiede alcun investimento, solo una revisione del modello da condividere.
Ripensare l’ospedale significa poter contare su personale motivato e orgoglioso del proprio ruolo e del proprio lavoro, non un’organizzazione sanitaria che emargina le teste pensanti a favore di funzionari obbedienti.
D’altra parte sembra che su questo punto esista una completa convergenza. Da Cavicchi all’Anaao, da Fassari a Cognetti, pare che tutti arrivino alla medesima conclusione: prima di pensare alle strutture edilizie ed alla revisione della dotazione tecnologica (certamente ambedue necessarie) è auspicabile la valorizzazione del personale medico e sanitario, del suo ruolo, del suo contributo.
Invece di tutto si sta parlando, nel PNRR, tranne che di questo.
Attendiamo solamente il contributo degli ‘esperti di economia sanitaria’, magari di quelli che hanno contribuito in maniera fondamentale ad escludere i medici da qualsivoglia processo gestionale, programmatico e decisionale in ambito ospedaliero.
Un modello di successo e certamente da proporre ad altre importanti organizzazioni che si occupano di pubblici servizi: dal momento che probabilmente anche la Pubblica Sicurezza ha oggettivi problemi di fondi, di personale e di attrezzature, perché non utilizzare le competenze di un bocconiano ai vertici della Polizia di Stato?
E’ poi del tutto incomprensibile che non venga impiegato il modello lean thinking, assieme al contributo di esperti di economia anche per affrontare e risolvere i gravi problemi dell’organizzazione della macchina giudiziaria. In fondo anche i tribunali hanno carenza di personale, una produttività spesso non eccellente, strutture e attrezzature obsolete. E perché poi non sostituire con un plotone di esperti di management anche i Comandi di Corpo d’Armata ai vertici dell’esercito e dell’aeronautica italiani? Certamente riuscirebbero ad inventarsi ed a giustificare ulteriori tagli alla Difesa, a far chiarezza sui costi degli F-35, ma soprattutto a ridimensionare i costi, tagliando sia il personale che l’operatività.
E infine, dopo i banchi a rotelle e la didattica a distanza, appare del tutto fuori luogo che della scuola debbano interessarsi solo gli insegnanti: perché non utilizzare gli esperti di ‘economia scolastica’ per affossarla del tutto?
Corbellerie? Mica tanto, visto che, nella revisione dell’attuale modello ospedaliero e di un nuovo progetto di organizzazione sanitaria, il grande escluso, a parte il ruolo e la figura del medico, sembra essere l’intelligenza. Come altro definire quella serie frenetica di proposte scoordinate che caratterizza questi momenti di PNRR e che sembra dare ragione a Francisco Goya: il sonno della ragione genera mostri?
Come il task shifting, ad esempio, locuzione generosamente impiegata da chi utilizza una terminologia volutamente criptica per significare, come ha brillantemente tradotto il presidente Fadoi, ‘riduzione del numero dei medici e una ‘diminutio’ del ruolo del medico’. A fronte di queste proposte, altro che ospedale del futuro: ci tocca ricominciare dai cerusici, dai barbieri, dai norcini. Con la differenza che queste degnissime professionalità hanno impiegato qualche secolo per arrivare a produrre grandi chirurghi come Lister, Morton, Barnard, mentre oggi, nel mondo interconnesso e autoreferenziale, sarebbero sufficienti tre quarti d’ora. .
Quando poi dal cilindro della revisione dei modelli assistenziali si tirano fuori le ‘Case della salute’ e di ‘Comunità’, con il loro corollario di conflitti di competenza e di responsabilità, di ulteriori nomine di direttori e responsabili, di reparti amministrativi, di regolamenti e ambiti territoriali, allora la fiducia che le analisi e le proposte relative all’ospedale possano avere un qualsivoglia sbocco positivo, diventa veramente poca cosa. A questo punto, e con tutti i suoi limiti, lasciateci per favore la medicina di base. Anche questa non prevede grandi costi aggiuntivi e comunque si tratta di quattrini già a bilancio.
Risulta difficile pertanto partecipare al dibattito sul rinnovamento dell’ospedale, un rinnovamento che dovrà essere per forza non solo organizzativo, strutturale, tecnologico ma anche antropologico. Molto difficile avanzare proposte ragionevoli se poi ci si ritrova intrappolati in mezzo ad una palude di proposte eterogenee, confuse, demoralizzanti. Estremamente difficile ragionare sulla destinazione dei finanziamenti, non solo insufficienti, ma per di più in grado di suscitare appetiti voraci.
Quindi non è tanto l’ospedale a dover essere ripensato, quanto l’intera organizzazione sanitaria, a partire dai servizi epidemiologici per arrivare alle cardiochirurgie; dall’ospedale pubblico a quello privato accreditato; dai LEA alle assicurazioni; dalla medicina di base all’assistenza domiciliare; dalla televisita alla videochiamata; dai profitti del privato ai deficit dei bilanci regionali; dal ruolo delle Regioni a quello del Governo centrale e molto, molto altro ancora. Resta comunque centrale il nodo della valorizzazione e del coinvolgimento del personale sanitario. E magari, prima del loro definitivo declassamento ed emarginazione, anche i medici potrebbero fornire un piccolo, modesto contributo.
Pietro Cavalli
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