‘Don’t look up’ e ‘Mother/Android’ sono due recenti prodotti distribuiti da Netflix. La prima pellicola racconta di due giovani astronomi che in modo del tutto casuale individuano nel cielo una cometa di enormi proporzioni diretta verso la terra che ne causerà la distruzione. Avvertire la comunità planetaria non raccoglie credibilità. Anche il Presidente degli Stati Uniti, una donna impegnata a confermare il suo prossimo incarico, si dimostra in un primo tempo disinteressata al problema non vedendone un vantaggio personale; solo successivamente, e per motivi contingenti di mero interesse personale, inizia a sviluppare interesse per i due giovani astronomi e per la loro disastrosa previsione. Ma ormai è troppo tardi. C’è chi però ancora non crede in quello che di lì a poco potrebbe accadere e avvertono di ‘non guardare in cielo’, che sono tutte bufale, che non esiste nessuna cometa distruttrice diretta verso la terra. Fino a che la cometa si infrange contro il nostro pianeta e la frittata è servita.
Il secondo film è ambientato in un futuro distopico abitato da feroci androidi frutto di un esperimento di laboratorio abortito troppo in ritardo. Una coppia, lei gravida e in attesa di un parto incipiente, sono in fuga alla ricerca di un approdo adatto al parto. Le cose non andranno come si spera e come si vorrebbe in un racconto a lieto fine: il mondo si dimostrerà ostile verso la giovane coppia e continuerà ad essere poco benevolo nei confronti degli ultimi terrestri ormai alla mercé degli androidi.
Cosa hanno in comune questi due film? La paura. Il timore che scaturisce dalle incertezze. Da un lato i negazionisti che invitano a non credere alle fandonie dei giovani astronomi, alcuni per opportunità personale, altri per ignoranza e altri ancora per rifiuto – e paura – della realtà (il riferimento alla pandemia non sembra per nulla casuale); dall’altro la lotta per la sopravvivenza di uno sparuto gruppo di terrestri dal destino già segnato: anche in questo caso il pianeta è messo a ferro e fuoco da un prodotto di laboratorio – gli androidi – che dimostrano la volontà di disegnare un nuovo volto al pianeta con nuove abitudini e nuove omologazioni (anche in questo caso il riferimento ad un virus ribelle – qualsiasi ne sia la provenienza – e resistente ad ogni genere di profilassi e trattamento, non sembra per nulla casuale).
La paura. Il cinema ha sempre fatto da cassa da risonanza alle paure, da quando è nato. Dopo il primo conflitto mondiale, in Germania, lo spettro del militarismo prussiano congiunto all’inflazione avrebbe preparato la strada al nazismo. Scrittori, sceneggiatori e registi che facevano capo alla corrente espressionista mettevano in guardia da questa possibile eventualità come ne ‘Il Gabinetto del dottor Caligari’ (Das Cabinet des Dr. Caligari, 1920): Caligari come Hitler e il popolo germanico in balìa di una dittatura, metafora cinematografica di ciò che sarebbe accaduto tredici anni dopo. Dieci anni dopo, negli Stati Uniti, la grande depressione economica della fine degli anni venti coincide con la realizzazione di due film, trasposizione cinematografica di due differenti racconti dell’epoca vittoriana: ‘Dracula’ (Dracula, 1931, tratto dall’omonimo romanzo di Bram Stoker editato nel 1897) e ‘Frankestein’ (Frankestein, 1931, tratto dal racconto di Mary Wollstonecraft Shelley – Frankenstein, or The Modern Prometheus –scritto nel 1816). Anche in questo caso il cinema tenta una sublimazione nel tentativo di superare la paura di una crisi economica. Il mostro è la paura che viene sconfitta con l’annientamento della creatura malvagia.
Molti anni dopo, ancora negli Stati Uniti. ‘L’invasione degli ultracorpi’ (Invasion of the Body Snatchers, 1956) viene partorito negli anni successivi alla ‘caccia alle streghe’ scatenata da MacCarthy contro i comunisti (o presunti tali) nel mondo dello spettacolo e dell’arte. Gli extraterrestri si impossessano del nostro pianeta sotto mentite spoglie: sono gli antiamericani del maccartismo. Il finale lascia nell’ambiguità: i protagonisti sono in fuga, non sappiamo per dove, nel tentativo di eludere l’omologazione aliena.
Ancora dieci anni più tardi lo stesso scenario: questa volta sono gli zombi di scena ne ‘La notte dei morti viventi’ (Night of the Living Dead, 1968) pellicola che, secondo diverse interpretazioni, potrebbe essere la metafora della guerra fredda, dove gli zombi rappresenterebbero i sovietici; gli zombi pasteggiano incontrastati fino all’ultimo fotogramma: e, quando sembra di dover assistere ad un lieto fine, l’epilogo lascia aperti molti interrogativi: che ne sarà del nostro pianeta in balìa di queste creature immonde? Come e quando finiranno i contrasti tra Stati Uniti e Russia? Forse mai.
Oggi lo scenario è cambiato. Al cinema non ci sono più i mostri della Universal o della Hammer; non fanno più paura quelle creature mostruose che fanno parte del nostro antico immaginario del soprannaturale. Oggi la paura arriva dal quotidiano: dalla ferocia sanguinaria del femminicidio alla pedofilia, dal terrorismo alle diverse eversioni a sfondo spesso religioso, dalle pandemie e da certa politica in mano alle multinazionali. Siamo di fronte ad un fantastico quotidiano (per dirla come Massimo Moscati) che di fantastico ha sempre meno, lasciando spazio invece ad uno spaventoso reale quotidiano.
Il cinema (e la produzione artistica in generale) ci mette in allarme. Così il cinema assolve ai suoi compiti: divertire, emozionare – certamente – ma anche far riflettere raccontando storie attraverso le immagini. Comunicare la gioia ma anche le inquietudini del nostro tempo, soddisfare l’espressione artistica ma nel contempo rendere universale il messaggio, qualsiasi esso sia, per farlo entrare nel cuore delle persone. Ecco, il cinema è un perfetto comunicatore capace di smuovere le coscienze, capace di interpretare al meglio le nostre gioie ma anche le nostre paure per poterle comprendere ed esorcizzare.
Fernando Cirillo
Una risposta
La paura collettiva è un tema enorme. E si direbbe, leggendo questa interessante analisi, che il cinema, nel suo linguaggio universale, sia in grado di coglierla e interpretarla meglio della politica. Ma se il cinema non ha storie a lieto fine e pure la politica pare alquanto impotente, il compito di tirarci fuori dai guai pare ancora e sempre tutto nostro. Per quanto impauriti e soli. proviamo a riprenderci il futuro e per quel che si può, a raddrizzarlo.