Ci sono fotografie di guerra che si fissano nella memoria collettiva e non si cancellano. Vanno in letargo, ma poi ritornano. Non si scordano. Difficile dimenticare la bambina vietnamita che fugge nuda alle bombe al napalm sganciate dai B52 americani (giugno 1972). Oppure il giornalista con in braccio il figlio ucciso da un missile israeliano lanciato su Gaza (novembre 2012). O la processione dei camion militari che attraversano Bergamo con le bare dei morti per il covid (18 marzo 2020). O, ancora, il padre che abbraccia il figlio adolescente morto durante l’invasione russa dell’Ucraina, attacco tuttora in corso. Immagini che tolgono il fiato. Fanno male. Deprimono. Pongono interrogativi sull’atrocità della guerra e sulla caducità della pace. Sull’insipienza-incoscienza dell’umanità. Passato il pericolo, la paura e l’overdose mediatica con spreco di talk show, commenti seri, sciocchezze di esperti improvvisati, le fotografie finiscono in archivio.
L’orrore viene rimosso. L’illusione del mai più è l’happy end concesso dai padroni del vapore ai passeggeri, senza avvertirli che nascosta dietro l’angolo, o poco più in là, incombe il dramma successivo. Restano i racconti dei reduci, il dolore delle famiglie e degli amici delle vittime. La loro solitudine. Le ferite mai rimarginate. Le date e la versione sui libri di storia, che si dice sia scritta dai vincitori. Le analisi e le pubblicazioni di dotti saggi. La polvere che copre e attenua i bagliori. Poi arriva la giornata della memoria, il 18 marzo quella nazionale per le vittime della guerra contro il covid, conflitto in atto e con la possibilità non remota di trasformarsi in guerriglia endemica. Vengono eretti monumenti e appese lapidi sugli edifici pubblici. Si spendono quintali di discorsi retorici e pochi etti di qualità con il contorno di immancabili promesse e lo spreco di buone intenzioni. Commozione e lacrime. Rabbia e impotenza. Disincanto. Rimangono romanzi con pagine di vite distrutte e voglia di ricominciare. Poi film sui disturbi da stress post traumatico: Taxi driver, Il cacciatore, American Sniper e molti altri. Non manca la musica che trasforma i massacri in struggente poesia. «Si son presi – canta Fabrizio De André – il nostro cuore sotto una coperta scura. Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura. Fu un generale di vent’anni occhi turchini e giacca uguale».
La fotografia del corteo funebre di Bergamo è testimonianza non solo di un castigo divino e di una sconfitta, ma anche la certificazione di errori e impreparazione. È la nostra foto. L’immagine simbolo della nostra guerra. Della nostra tragedia. Cremona, Crema, Casalmaggiore come Bergamo. Rivedere il video della mesta-lugubre processione trasmesso in questi giorni suscita pietà, ma anche amarezza per quello che poteva essere fatto e non è stato fatto. Per quello che è stato successivamente promesso e non mantenuto. Stimola una riflessione sul tema salute e politica sanitaria nella nostra provincia. Riflessione che spazia dalla chiusura dell’Area Donna di Cremona, all’ubicazione della Casa di comunità a Crema, alla situazione dell’Oglio Po di Casalmaggiore. Alla carenza dei medici di base nell’intera provincia. Riflessione sull’opportunità o meno di costruire un nuovo ospedale nel capoluogo, sulle interviste tappetino, spot pubblicitari di non eccelsa fattura, a Salvatore Mannino e Giuseppe Rossi, rispettivamente direttori generali dell’Ats Valpadana e dell’Asst di Cremona. Riflessione sulla fuffa spacciata per cambiamento, venduta con linguaggio criptico per addetti ai lavori. Riflessione sulle critiche di Angelo Bonvissuto, Uil, e Roberto Dusi, Cisl, alla gestione della sanità locale, riflessione sull’assenza del direttore generale dell’Asst al confronto sull’Area Donna che si è tenuto nella Sala Quadri del Palazzo comunale. (Cremonasera, 19 marzo).
Roberto Fico, presidente della Camera, venerdì a Bergamo ha dichiarato: «Oggi è il momento del nostro dolore, ma serve avere la forza di non dimenticare e la capacità di far sì che quello che è successo non sia stato invano. È oggi giusto parlare dei limiti che ci sono stati e di cosa non ha funzionato per ripensare la sanità». Poche righe e un programma. Non basta proporlo. È necessario realizzarlo. Credere che strumenti diagnostici da fantascienza, ingegneria genetica, farmaci personalizzati, informatica e statistica siano la soluzione di ogni malanno è una chimera. Continuerà ad esserlo se non si interrompe il mantra sull’inquinamento da incubo di Cremona e se prima non si riprendono e poi si rendono pubblici gli studi epidemiologici fermi al palo. Auspicare che un nuovo ospedale spaziale, ottava meraviglia del mondo, risolva da solo le criticità della sanità nel territorio è una narrazione ottimistica. Medicina di prossimità e assistenza sono il problema. La carenza di strutture e di operatori della prima linea sono il problema.
La politica e la finanza sono il problema. Questa analisi, condivisa dal mondo tutto quando i morti giornalieri di covid si contavano a centinaia, oggi è caduta in disgrazia. Perso l’appeal, conta poco. Vale meno. Tolta dalla cantina, salita sul cocchio del principe, la medicina del territorio è ritornata nel sottoscala. Dalle stalle alle stelle e viceversa. Andata e ritorno. L’ospedale ha ripreso il comando. Di nuovo al centro. Non si investono trecentotrenta milioni di euro per una comparsa. Ora e sempre ospedale. Il vero nodo gordiano da sciogliere è la scelta tra una medicina e un’assistenza coordinate e al servizio dei cittadini o una sanità imposta dai bilanci delle aziende sanitarie. Quella della produttività, delle esternalizzazioni. Del personale risicato o insufficiente. Il passaggio da Unità Socio Sanitarie Locali ad Aziende non si è limitato a una semplice modifica semantica, ma ha indicato in modo preciso e perentorio la nuova rotta. L’azienda ha una impostazione bocconiana, attenta al benchmark e agli stakeholder con la gabbia dei Drg (Diagnosis Related Groups) che determinano il rimborso di ogni intervento dal più semplice a quello complesso. L’ospedale è un’officina, una carrozzeria con un tariffario prestabilito per ogni pezzo di ricambio e prestazione. O si rispettano questi parametri o niente rimborsi.
E’ una sanità più merce che assistenza e cura, ma la salute non è un prodotto. Non si vende e non si compra. E’ un diritto garantito dalla Costituzione a tutti i cittadini, sempre e comunque. Alla fine di ottobre di due anni fa, 70 medici cremonesi sottoscrivevano un documento molto articolato. «La sanità cremonese – sottolineavano – soffre da tempo, ben prima della pandemia, di un progressivo depotenziamento: è quindi necessario definire strategie di lungo termine per riorganizzare sia il servizio sanitario cittadino che quello provinciale in relazione alle esigenze sanitarie della popolazione cremonese». I settanta proponevano «l’istituzione di un tavolo di lavoro dove le rappresentanze mediche, infermieristiche e tecnico-sanitarie siano coinvolte dagli amministratori della sanità in una profonda revisione delle strutture ospedaliere e territoriali dei servizi sanitari erogati alle persone».
Sono stati accontentati? In attesa di una risposta, ricordiamo i camion militari di Bergamo. Ricordiamo che la salute che non è un business. Ricordiamo che non è un serbatoio di voti. Ricordiamo che l’articolo 32 della Costituzione italiana non è stato abolito. I politici ne tengano conto.
Antonio Grassi