Nei mesi scorsi ha tenuto banco a Cremona una polemica sulla gestione del Teatro Ponchielli, polemica nel merito della quale non entreremo. Alcuni hanno lamentato l’intromissione della politica in scelte di non competenza. Senza entrare, anche qui, nel merito della disputa odierna, vorrei ricordare che la relazione fra teatro e politica è presente nel mondo occidentale fin dagli antichi greci. Ma non andiamo così indietro nel tempo e rimaniamo legati alla storia della nostra città. E’ forse il caso di ricostruire le vicende storiche che segnarono l’origine ed addirittura il nome del principale Teatro cittadino di un tempo: il “Concordia”, costruito nel 1806 sulle ceneri del “Nazzari” (nel 1807 venne inaugurato il Filodrammatici e solo molto più tardi, nel 1860, un terzo teatro: ma nessuno ebbe l’importanza del “Concordia”). Occorre fare un salto indietro nel tempo, fino a giungere a quel breve periodo che va dall’arrivo dei francesi in Italia (primavera del 1796) alla graduale presa del potere da parte di Napoleone Bonaparte, periodo che Ugo Foscolo chiamava la “Rivoluzione d’Italia”. Periodo che tante speranze suscitò nel nostro Paese, speranze naufragate poi nell’autoritarismo, nelle guerre, nei saccheggi di Napoleone.
Diciamo subito che la Rivoluzione, in Italia, modificò solo in piccola parte l’assetto sociale e ridusse solo di poco l’enorme mole di ingiustizie che caratterizzava l’ “ancien régime”. Al vertice della piramide sociale cremonese vi era un gruppo ristretto di famiglie patrizie, una sessantina circa, praticamente le stesse da molto tempo. Queste famiglie erano riuscite, sotto il dominio austriaco ed anche prima con gli spagnoli, ad evitare che ricchi mercanti, facoltosi banchieri, importanti notai ed avvocati, divenissero nobili (salvo rarissime eccezioni). Il prezzo pagato non era stato però di poco conto: la chiusura sociale aveva portato alla assenza di ricambio, ad una vera e propria “endogamia sociale” (chiusura al proprio interno di un gruppo sociale, anche grazie alla politica di matrimoni fra persone di un esiguo numero di famiglie), per cui molte famiglie nobili andavano estinguendosi. Nei trent’anni circa a cavallo del secolo, tra ‘700 ed ‘800, scomparvero una quindicina di famiglie nobili cremonesi (i Raimondi, i Vernazzi, i Brumani; i Biffi, con la morte di Giambattista, il più illustre intellettuale illuminista cremonese; i Magio, poco più tardi i Picenardi e tante altre famiglie). Lo storico cremonese Lancetti, all’inizio degli anni Trenta dell’Ottocento, parlerà addirittura di “trenta e più stirpi patrizie” estintesi in mezzo secolo. Non vi fu però, sostanzialmente, dispersione dei patrimoni! I legami parentali fecero sì che le ricchezze, salvo le donazioni alla Chiesa o ad ordini religiosi, rimanessero nella disponibilità delle famiglie rimaste. Per di più, si è appurato che circa il 30% dei 1421 ettari di terreni espropriati alla Chiesa e messi in vendita dalla Repubblica Cisalpina nel Dipartimento dell’Alto Po fra il 1796 ed il 1802 è stato acquistato dalle più importanti famiglie nobili, che hanno così quasi raddoppiato l’estensione delle terre da loro possedute. A differenza, quindi, di quanto avvenuto in Francia, neppure la vendita dei beni ecclesiastici indebolì a Cremona potenza e ricchezza del ceto nobiliare! Semmai, l’operazione spostò ulteriormente gli equilibri interni alla nobiltà, a vantaggio delle famiglie già più prestigiose ed abbienti. Tant’è vero che a metà degli anni Venti dell’ Ottocento la ricchezza risulta essere concentrata in una decina di famiglie. Ricchezza invero considerevole, che porta ad includere queste dieci famiglie cremonesi fra le cento più ricche della Lombardia del tempo! Nulla ha fatto quindi la Rivoluzione? O addirittura ha reso più ricchi i ricchi, anche se formalmente ha tolto i titoli nobiliari ed annullato il vantaggio di casta? Sarebbe dire troppo. L’arrivo dei francesi e la Repubblica hanno tolto alla nobiltà come ceto gli ultimi privilegi feudali e l’accesso esclusivo alle principali cariche pubbliche. Hanno favorito l’ascesa di “homines novi”: qualche mercante, ma soprattutto intellettuali che oggi definiremmo legati alle “libere professioni” (avvocati, ingegneri, insegnanti ecc.), divenuti dirigenti e funzionari pubblici. La nobiltà reagì, eccome! Per quasi un decennio, cioè fino all’istituzione del Regno d’Italia, quando capì che con le nuove autorità doveva e poteva collaborare, la nobiltà cremonese si astenne da ogni partecipazione alla vita politica e sociale, boicottando le nuove Istituzioni. L’ostilità maggiore si manifestò nel boicottaggio di alcune stagioni teatrali, per protestare contro le nomine dei nuovi Direttori imposti dalle autorità e contro l’apertura all’acquisto dei palchi da parte della classe borghese. Una tal forma di protesta, in un clima che immagineremmo da guerra civile, ci può oggi far sorridere. Ma non dimentichiamo l’alto valore simbolico del teatro cittadino, come esibizione e centro di potere! Il boicottaggio era cosa seria e venne preso sul serio! La protesta si concluse solo quando i nuovi Direttori dimostrarono attenzione ai gusti conservatori dominanti ed i nobili capirono che potevano utilizzare la loro disponibilità finanziaria ed il diritto di prelazione per acquistare ad ogni stagione quasi tutti i palchi che volevano e cederli a conoscenti e “clientes”. Il nome del nuovo teatro, “Concordia” (ricostruito in 16 mesi, con progetto dell’architetto Canonica, sulle ceneri del precedente andato distrutto in un incendio nella notte fra il 10 e l’11 settembre 1806), inaugurato nel 1808, venne scelto proprio per marcare un distacco dal recente passato rivoluzionario e sottolineare il nuovo clima che, con la proclamazione nel 1805 del Regno d’Italia, avrebbe dovuto regnare.
In effetti, il consolidamento politico-istituzionale conseguente alla creazione del nuovo Regno ed alle vittorie militari di Napoleone, insieme alla politica socialmente moderata seguita dalle autorità, avevano convinto i nobili che di cambiamenti sociali radicali non ve ne sarebbero stati e che il nuovo potere era solido e sarebbe durato a lungo. In questo contesto, i patrizi tornarono in gran parte, per scelta d’opportunità e non certo per convinzione (corrispondenza privata e varie testimonianze confermano l’ostilità di principio al nuovo sistema, oltre al rapido schierarsi con gli Austriaci al momento opportuno), a partecipare alla vita politica, non più come ceto ma come individui, accettando persino, anche se mai usando, l’espressione “cittadini”, certo però con il prestigio e la potenza economica di sempre. Nel 1808 venne nominato Podestà di Cremona un nobile, per la prima volta dall’inizio della Rivoluzione: Ignazio Albertoni, che rimarrà in carica per la restante parte del periodo napoleonico ed oltre.
1 – Continua
Una risposta
Nuovamente si incendiò e fu ricostruito dall’architetto Luigi Voghera. Del progetto Canonica rimane l’attuale pronao. Destino dei teatri che come araba fenice rinascono.