Mai sentiti pubblici sermoni di più ferreo unanimismo. Un coro di voci bianche, mani giunte e occhi al cielo per scorgere i primi fiocchi della manna che, in forma di Recovery Plan, ristorerà le nostre esauste finanze. Non uno che abbia il coraggio di steccare e, giusto per concedere qualcosa alla dignità intellettuale del dubbio, azzardi la cruciale domanda: siamo proprio sicuri che un malloppo pur ragguardevole di euro sarà leva sufficiente per ‘voltare pagina’? Ma tutti paiono crederci. La politica italiana è in piena fase mitopoietica, direbbe un antropologo: succede quando fuggi dalla realtà o comunque la abbellisci trasfigurandola in un mito, in genere proiettato sul passato, nel nostro caso sul futuro. Un’Italia povera diventerà ricca e da una devastante pestilenza zampillerà il petrolio di una novella fortuna. Alla prodigiosa costellazione non difetta alcun astro: c’è il danaro della provvidenza, c’è l’uomo della provvidenza (povero Draghi, che panni scomodi i suoi) e c’è il governo dei ‘migliori’. Mentono sapendo di mentire? Male. Credono a quello che dicono? Di male in peggio. Fa più danno un bugiardo o uno sprovveduto? Da che mondo è mondo l’irrisolto dilemma inchioda le coscienze. Nessun intento di disfattismo, il nostro. Le risorse concesse dall’Europa sono davvero la manna necessaria alla nostra rinascita ma necessaria non vuol dire sufficiente. Questo è il punto. Il vero operatore del riscatto che ci farà voltare pagina si chiama lavoro ma il transito operativo per trasformare le risorse in lavoro appare, al momento, alquanto indefinito. ‘Voltare pagina’ a chiunque disponga di qualche consapevolezza storica appare come un impervio lavoro di ‘rimodellamento’ spinto tanto a fondo da incidere su quella crosta resistentissima al cambiamento che è il famoso ‘carattere nazionale’. E’ dunque la più titanica, materialmente, culturalmente e umanamente costosa delle sfide su cui un Paese possa scommettere. E come affrontarla se non intervenendo con la necessaria intelligenza chirurgica là dove si concentrano le più gravi responsabilità distorsive rispetto a una crescita da anni vanamente inseguita? In una sommaria disamina, a lume di buon senso, almeno tre questioni parrebbero esigere corsia preferenziale.
Criminalità organizzata. E, sia chiaro, non stiamo più parlando di un nemico del sistema ma di un pezzo del sistema stesso. A tal punto è giunta la sua integrazione nel gangli vitali del nostro tessuto che porzioni consistenti del Paese sono ormai quasi completamente nelle sue mani. Su altre esercita condizionamenti indiretti ma crescenti. Guizza nel nuovo capitalismo finanziario, ubiquitario e immateriale, come un pesce nell’acquario ideale. Il lavoro investigativo, sempre più complesso, richiede professionalità elevatissime, mezzi sofisticati, incrocio su scala mondiale di banche dati e tempi conseguenti per farlo. Come coniugare tutto questo con le esigenze connesse all’impiego dei fondi europei vincolati a procedure decisionali rapide, tabella di marcia spedita, tempi certi e acclarata assenza di infiltrazioni criminali? Auguriamoci che questo raro allineamento astrale allieti i nostri cieli quanto basta all’impresa. Seconda considerazione: da chi dipendono i tempi procedurali dell’impresa? Dalla burocrazia, la quale sa benissimo di operare in Italia, un grande paese, afflitto però per complesse ragioni storico sociali, da contesti altamente criminogeni. E’ evidente che le conseguenze del famoso peccato originale mantengono qui da noi spiccata vitalità contagiosa. Come affronta il problema? Nel dubbio di frodi in agguato, spara su tutto quello che si muove, dissuade ogni potenziale intraprendenza economica costringendola a trafile burocratiche che sfiancherebbero un bisonte. Se aprire una gelateria richiede un’ottantina di permessi come immaginare che l’Italia, al magico tocco degli agognati finanziamenti, fiorisca di cantieri come un prato di viole a primavera? In questo ingorgo, in questa specie di eterna caccia al ladro a cui troppo spesso pare ridursi la biografia del Bel Paese arriva mai il momento risolutivo, quello in cui poter dire, come nei film a lieto fine, giustizia è fatta? Si e no. Più no che sì. Si dà infatti il caso che proprio l’organo garante che giustizia sia fatta sia il pezzo più malato del sistema. Difficile dirlo e scriverlo senza sentire di far torto a quella maggioranza di bravi magistrati, di retti e in qualche caso eroici servitori dello Stato, che riescono a custodire la terzietà del ruolo pur lavorando in una corporazione che di questa terzietà da tempo sta facendo scempio. Il panorama che giorno dopo giorno si scopre è sconcertante: correnti, faide, processi pilotati, sentenze aggiustate, carriere pubbliche miracolate o distrutte in funzione di interessi lobbistici e delle pregiudiziali politico ideologiche che da decenni hanno fatto di molte toghe il potente braccio giudiziario della sinistra italiana. A occhio e croce, un sistema più da rifondare che da rattoppare. Niente infatti indebolisce gli anticorpi difensivi di una democrazia quanto un diffuso e fondato scetticismo circa la capacità e la volontà dello Stato di imporre la legalità e punire con pene certe e adeguate il crimine. E tuttavia pare proprio che la politica a rattoppare e tantomeno rifondare non ci pensi proprio. Sconcerta che, a parte sporadiche scaramucce, il titolare del potere legislativo, cioè il Parlamento, tolleri di convivere con un potere giudiziario giunto a questo stadio di interna decomposizione. Specie in vista della grande assunzione di responsabilità connessa all’impiego dei fondi europei, quando il sistema Italia dovrà almeno tentare di trasformarsi in un meccanismo non troppo ‘chiacchierato’ e che non sgarra. Perché al riguardo la politica si riserva tanto defilato ruolo in commedia? Domanda da girare, almeno in prima battuta, ai potentati dell’asse parlamentare Pd-5 Stelle. Questa, in una sintesi sommaria, forse impietosa, certo non fantasiosa, l’Italia che ‘volterà pagina’. Ai cantori della buona novella l’onore e l’onere di dirci come. E tante scuse se ho guastato la festa.