Non molto tempo fa ho visitato il forte di San Juan de Ulúa (foto centrale): una delle attrazioni più importanti della città di Veracruz in Messico. Si tratta di un tipo particolare di attrazione turistica, di quelle a cui siamo molto abituati in Italia, perché mercantilizzano la storia di un posto e la sua cultura. Questi sono dei posti strani che funzionano attraverso una forma specifica di magia che riesce a rivestire di fascino architetture e luoghi, spesso teatro di eventi macabri e sanguinari. Intollerabili se fossero percepiti in qualche modo vicini, diventano momenti mitici di un passato indefinito che ci si presenta sotto le mentite spoglie di una favola, di un intrattenimento. Questo risultato normalmente viene raggiunto attraverso una serie di minuziose tecniche di costruzione del prodotto da vendere (l’esperienza turistica) che vanno dalla pubblicità e il marketing dell’attrazione, alle guide turistiche, i gadget con il logo, alla ricostruzione e ristrutturazione dello spazio fisico che si visiterà, all’associazione del posto con delle possibilità di consumo (negozi, bar), eccetera. Ecco, pur avendo tutte le carte in regola, pur essendo sicuramente stato oggetto di finanziamenti rilevanti, pur avendo le certificazioni necessarie: il forte di San Juan de Ulúa, dal punto di vista di quello che vorrebbe essere, è stato un fallimento. E forse proprio per questo rimane una attrazione che vale assolutamente la pena visitare, proprio a causa del suo non funzionare.
Ho detto che il forte è un fallimento dal punto di vista di quello che vorrebbe essere, ma sarebbe meglio dire dal punto di vista di quello che si vorrebbe che fosse: una attrazione turistica, e per tanto un posto impregnato di quella magia che dicevo prima. Ma cos’è il forte di San Juan de Ulúa? Quale sarebbe l’incantesimo non riuscito che ci dovrebbe lasciare un po’ stupiti, un po’ spaventati ma contenti e spensierati mentre passeggiamo tra le sue mura?
Il forte di San Juan de Ulúa è stato di fatto il primo avamposto della colonizzazione dell’America continentale da parte degli spagnoli più di 500 anni fa. Sull’isoletta dove sorge, Cortez è approdato per poi fondare, proprio sulla costa antistante, l’Heroica Villa de la Vera Cruz, ora semplicemente Veracruz, che tutt’oggi costituisce uno dei porti più importanti del Messico. Da qui sono partite le spedizioni che hanno dato inizio alla conquista dell’impero azteco e alimentato poi la ricchezza spagnola per secoli. Qui, in questo porto… di piú! In questa precisa fortezza – e veniamo al succo della questione turistica – sono arrivati i primi africani schiavizzati sulle coste dall’altra parte dell’oceano e dopo di loro ne sono arrivati a migliaia, decine o centinaia di migliaia. Per la Nuova Spagna si parla di 250 mila persone, in buona quantità transitate per questa fortezza. Una fortezza che, d’altra parte, gli schiavi stessi, africani o indigeni, hanno contribuito a costruire nel corso degli anni con le sue modifiche ed espansioni.
Sulla carta, lo spazio fisico del forte è effettivamente perfetto per la magia del turismo: l’architettura è coloniale con elementi “italiani, spagnoli e arabi”, come ascolto passando accanto a una guida che parla a un gruppo di attenti turisti. L’architetto, Battista Antonelli – membro di una famiglia dedicata all’ingegneria militare – dai domini italiani della Spagna, ha lavorato alla corte di Madrid e ha progettato strutture analoghe al forte in altri porti delle colonie spagnole, in quello che fu uno sforzo della corona iberica per rendere sicuri i propri importantissimi insediamenti costieri americani.
Comprato il biglietto in un edificio ancora sulla terraferma, si raggiunge il doppio ingresso camminando lungo le mura d’epoca moderna. Qui si può scegliere tra due strutture: una, il forte vero e proprio, sulla destra; l’altra, sulla sinistra, una struttura che ha avuto diverse funzioni, tra cui quella principale di carcere dove hanno “alloggiato” anche alcuni personaggi illustri della storia messicana. Indipendentemente da questi dettagli storici, lo spazio affascina con anguste celle umide, corridoi stretti e bui che, mentre potrebbero intimorire, altrettanto potrebbero far fantasticare situazioni da storie di pirati dei caraibi di altri tempi.
Il forte vero e proprio invece è molto più grande, dotato di torrioni e corti interne e di un palazzo ora adibito a museo. Gli scorci e le geometrie militari sono belli. Salendo e scendendo le scale si incontrano sempre prospettive interessanti. Dietro l’angolo spesso si intravede il mare e all’orizzonte, dall’altra parte, la città e il porto di Veracruz. Ma non funziona.
Il livello minimo di non-funzionamento dell’attrazione è nel suo costante interdire la possibilità di entrare al luogo. Sia nella fortezza che nel carcere numerosi spazi sono sbarrati da brutti e poco patinati nastri di plastica colorati, di quelli che appunto delimitano i cantieri. In alcuni casi, effettivamente, si tratta di cantieri che hanno l’aria di essere stati abbandonati da tempo. In altri casi, i nastri e cartelli scritti a mano, intimano ai visitatori di non entrare per l’instabilità del pavimento, segno della carenza di manutenzione. Eppure, non sono queste le vere limitazioni o critiche che mi sentirei di muovere al forte in quanto attrazione turistica.
D’altronde, problemi di questo tipo e le critiche che li accompagnano, sono comuni e rispondono alla logica del consumatore-turista che vede la propria esperienza rovinata dall’incompetenza del gestore o dalla scarsezza dei fondi. Il problema reale del forte, credo, risiede in un elemento strutturale difficilmente aggirabile o occultabile con anche le più raffinate strategie di marketing e tecniche di management. Mi riferisco alla sua ubicazione specifica che fa sì che, alla fine, il principale ostacolo alla riuscita dell’incantesimo risieda nel tragitto che si compie per raggiungere San Juan de Ulúa.
Per arrivare al forte ci sono due opzioni: una è via mare, attraversando il porto in barca. Ma il giorno che l’ho visitato io, non si poteva a causa del vento e del mare mosso. L’altra è via terra con un “tram” che in realtà è un autobus per turisti. Io arrivo alla fermata e compro il biglietto da una ragazza in pettorina rossa. Mentre sono seduto ad aspettare si aggiungono più o meno altre dieci persone. Il “tram” arriva, piuttosto grottesco: a due piani, rosso, senza tetto al secondo piano e aperto e senza finestre al primo piano. Per salire, l’autista, un signore anziano che scopriamo essere il nonno della ragazza che vende i biglietti, ci permette di abbordare collocando una piccola sedia di fronte all’entrata a mo’ di gradino per facilitare la salita.
Una volta a bordo, ad accoglierci mentre il signore mette negli altoparlanti musica jarocha – la tradizionale della regione –, nei primi due posti ci sono due statue che riproducono le mascotte turistiche dello stato di Veracruz. Si tratta di una coppia jarocha abbastanza onnipresente in città in forma di gadget, calamite, tazze, magliette e che chiaramente vorrebbe segnare l’entrata nel mondo magico della cittá. Questa, dopo tutto, si vende come caraibica: nulla di più magico o esotico. La realtà però è che si tratta di una grande porto industriale dall’aria decadente, la cui atmosfera, quel giorno, è resa ancora più cupa dal cielo plumbeo e dal famigerato “norte”, il freddo vento che soffia da Stati Uniti e Canada.
Il viaggio dura circa 15-20 minuti, ma sembra durare molto di più, l’aria gelida spazza il mio volto e quello delle famiglie a bordo con me. L’esperienza è peggio che spiacevole. Dal malecón di Veracruz, il porto gentrificato, che già non è porto ma anche lui attrazione turistica e luogo di consumo, l’autobus si incammina verso il forte aggirando il golfo e spingendosi verso un cavalcavia. Lo imbocca e saliamo e dall’alto si dipana di fronte alla vista un paesaggio spettrale. È il porto, quello vero, che continua a funzionare e continua ad essere uno dei nodi dell’infrastruttura del capitalismo globale. Un reticolo di binari con treni merci passa sotto la strada che percorriamo, a destra e a sinistra le industrie che contano: la automobilistica con distese infinite di veicoli parcheggiati; l’industria chimica con le sue strutture di raffinazione e stoccaggio; l’industria petrolifera nazionale, Pemex, che per la sua storia è indissolubilmente legata al golfo e il cui logo vedo stampato e sbiadito su alcuni edifici; e un po’ più in là, le enormi gru del porto che caricano e scaricano merci.
All’orizzonte, contorno di tutto l’osservabile, un mare in tempesta che si scaglia feroce contro i frangiflutti in cemento color grigio scuro come quasi tutto il resto. Osservare questo paesaggio ricorda il momento in cui il protagonista di Matrix si risveglia e scopre la natura del mondo reale dominato dalle macchine. La mega-macchina capitalista ci si rivela nella sua violenza color della morte. Tutto quello che vediamo è sottomesso al suo volere, tutto il paesaggio è funzionalizzato al suo interesse e l’unico senso è quello globale. Ed è così che si arriva al Forte di San Juan de Ulúa.
Salito sul tram pensando di aver ingoiato la pillola blu, scopro invece di aver inghiottito la pillola rossa. Sono pronto a giurare che non c’è nessun posto più lontano dalla magia nell’intero pianeta. Ciliegina sulla torta, arrivati a San Juan de Ulúa, ci accoglie un altro grande protagonista dell’espansione capitalista: la marina militare. Il sito infatti è circondato da una caserma essendo, in fin dei conti, anche lui stesso un luogo delle forze armate messicane.
Così, camminare sul passaggio sotto le mura, vicino all’acqua, per poter raggiungere l’entrata del forte sarebbe un perfetto rito di passaggio per lasciare la grigia realtà ed entrare nel mondo fantastico del sogno turistico, ma ormai è tardi. Il grigio è troppo. La finzione non funziona, ma per questo bisogna visitarlo, diventa impossibile credere a qualsiasi bugia: le mascotte jarochas, la musica, i colori sgargianti, i muri in pietra ristrutturati, tutto il finto passa in secondo piano e il forte non può che presentarsi per quello che è veramente. È il primo tassello di una impresa, imperialista, violenta che continua ancora oggi e che si è appena vista dall’autobus.
Il forte non è diverso dallo spettacolo di morte del porto, il forte è il porto stesso, la sua prima forma, ormai sorpassata, perfezionata, espansa all’infinito. Il forte è solo un luogo di morte: principio di colonizzazione e schiavitù. La certificazione Unesco lo dice ai turisti imbambolati, ma è il porto di Veracruz a farlo capire veramente.
Conclusa la visita, mi incammino pensieroso verso la fermata dell’autobus. Rifletto sull’esperienza e sulla relazione tra finzione e realtà, tra capitalismo e marketing, chissà se l’autista dell’autobus è veramente il nonno della bigliettaia o è solo un’altra strategia pianificata. Per giungere a destinazione, non c’è bisogno di dirlo, sono costretto ad attraversare una serie di stand che vendono le più comuni cianfrusaglie per turisti. L’ultima bancarella vende anche gli immancabili magneti con la scritta colorata “San Juan de Ulúa” e la coppia jarocha cartoonesca. Lo compro.
Alessandro Grassi
2 risposte
Un Buon articolo che svela il “trucco ” del consumo turistico. Forse si dovrebbe essere più viaggiatori che turisti.
Complimenti Alessandro, un pezzo costruito a meraviglia. Buon sangue non mente! La figura del nonno autista e della nipote bigliettaia mi ha ricordato più di un tour turistico del nostro centro sud. Il Messico non ha nulla da insegnarci…