Nell’articolo precedente abbiamo visto come, a Cremona, la ‘Rivoluzione d’Italia’ (così la chiamava Ugo Foscolo) si sia conclusa con un compromesso sostanzialmente a favore della nobiltà, compromesso caratterizzato simbolicamente dalla nomina di un sindaco, Ignazio Albertoni, espressione del patriziato e dal nome (‘Concordia’) dato al nuovo principale teatro cittadino (la cui gestione ed i cui programmi tornarono ad essere quelli di prima del 1796, anno d’inizio della Rivoluzione). Non andò così altrove (in certi posti, a dire il vero, pure peggio), anche se un po’ in tutta Italia gli ideali della Rivoluzione andarono progressivamente affievolendosi, per essere del tutto soffocati con la Restaurazione del 1815. Perché a Cremona fu tanto forte il peso della nobiltà?
La forza della nobiltà cremonese, così conservatrice ed austriacante, è data anche dalla debolezza dei ceti borghesi. La Cremona medioevale e rinascimentale di banchieri e mercanti, che gareggiava con Milano ed esportava tessuti in tutta Europa, non era che un ricordo. Nella Cremona di fine ‘700-primi ‘800 non vi era un solo banchiere (qualche piccolo usuraio, al massimo) e neppure una banca! Anche per la costruzione del nuovo teatro, dopo la costruzione del precedente, ci si dovette rivolgere al mercato creditizio di Milano perché a Cremona non vi era nessuno che volesse o potesse anticipare una tale cifra (pur in presenza, come abbiamo visto, di grandi ricchezze, ma immobilizzate in proprietà terriere, palazzi, arredi, quadri o gioielli). Anche i mercanti non si erano ripresi se non in minima parte dalla grave crisi del ‘600. Nel periodo rivoluzionario e poi napoleonico, però, qualche segno di sviluppo vi fu. La costruzione di alcune nuove strade, la manutenzione delle vecchie vie e la maggior sicurezza dai briganti, un minimo rilancio della navigazione fluviale, le tariffe protezionistiche messe dalle autorità sui prodotti locali, favorirono una ripresa delle attività economiche. Pochi rimasero, comunque, i commercianti di grandi dimensioni, spesso contemporaneamente anche industriali tessili. Ricordiamo i Turina, setaioli di Casalbuttano, gli Jacini, pure di Casalbuttano, arricchitisi grazie al binomio ‘seta e terra’ (secondo la felice espressione di Maria Luisa Betri), i Cadolino, fornitori dell’esercito napoleonico (falliti proprio per la fragilità finanziaria che impedì loro di tener fede agli impegni assunti per i trasporti dell’artiglieria), e pochi altri, attivi soprattutto nella lavorazione e nel commercio del lino e del cotone. Moltissimi invece erano i piccoli e piccolissimi commercianti, come risulta dalle notifiche presentate alla Camera di Commercio. Sono attivi in città, nel periodo di cui stiamo parlando, poco meno di mille commercianti, su di una popolazione di circa 21.000 abitanti (più o meno 6.000 famiglie), divenuti circa 26.000 nel 1807, quando alla città furono aggregati i territori di Due Miglia e dei cosiddetti Corpi Santi. Questi mille commercianti erano sparsi in tutta la città e vendevano soprattutto generi alimentari (pane, latte, formaggi, carne, frutta; ma vi erano anche 4 limonari e 3 cioccolatari) , vino e legna da ardere. Colpisce il gran numero (come, del resto, in tutte le città per secoli!) di rivenditori di vino, più di 110, e di osti, più di 60. Ed anche, devo dire, l’esistenza di 24 caffettieri: antenati dei nostri caffè, ma anche rivenditori per uso familiare. Molti commercianti non avevano un negozio, ma un semplice banco, collocato di solito in piazza Grande o sotto i portici di palazzo comunale. Prevalentemente, i banchi vendevano prodotti alimentari, ma alcuni commerciavano in prodotti non deperibili (merciai, cordai, bigiottieri ecc.) ed i titolari di questi banchi erano ambulanti per un vasto territorio attorno alla città. Vi erano poi in città alcune piccole e piccolissime manifatture: del cotone, del lino, della seta, del vetro, dei cappelli. In tutto meno di 400 dipendenti, cui si aggiungevano una quarantina di capimastri e muratori e circa duecento manovali. Nella nostra piramide sociale, al di sotto di questo non grande numero di operai, stavano un migliaio di servitori domestici (soprattutto cocchieri, staffieri e camerieri) ed almeno altrettanti garzoni e lavoranti a giornata. Insomma, da un terzo alla metà circa della popolazione attiva di Cremona poteva contare su un reddito più o meno certo. Ciò non toglie che già una parte di questa popolazione vivesse in condizione di povertà, per la temporalità del lavoro e la cattiva retribuzione (per non parlare dei mille accidenti di salute o altro che poteva capitare). Il problema maggiore era però rappresentato dall’altra metà della popolazione in età da lavoro: viveva di espedienti (piccoli furti, prostituzione, aggressioni ecc.) o mendicava o vagabondava. Si calcola che circa cinque o seimila persone vivessero di carità, nell’indigenza più assoluta, senza nemmeno la possibilità o la volontà di ricorrere agli espedienti di cui dicevo. Poco o nulla fece per questa gente il nuovo Stato, se non sollecitare ulteriori forme caritative e proibire vagabondaggi ed illegalità! Ovviamente il tasso di analfabetismo era alto. Ma nel campo della scolarizzazione le nuove istituzioni, proseguendo sulla linea peraltro già avviata dalla amministrazione austriaca, riuscirono ad ottenere dei discreti risultati. In città vennero raddoppiate rispetto al periodo precedente le classi di scuole elementari pubbliche, portandole a 11 con 410 allievi (cui vanno aggiunti i 220 alunni delle 5 classi private). Vennero potenziati i licei e dotati di attrezzature scientifiche avanzate e di un museo di scienze naturali (che quindi nasce proprio con precise intenzionalità didattiche), oggi parte del Sistema museale della città. Si calcola che in città l’analfabetismo fosse ridotto a circa il 50% dei maschi ed il 75% delle femmine. Percentuale alta, quella dell’analfabetismo, ma inferiore alla percentuale presente nelle campagne (dove, se i maschi raggiungevano la stessa percentuale delle donne in città, queste arrivavano al 98-99%, a riprova della totale subalternità femminile!), inferiore a quella di buona parte dell’Italia ed inferiore pure a quella che si registrerà in certi periodi della Restaurazione. Lo Stato, come rafforzava la propria presenza nel settore dell’istruzione, così faceva in ogni altro ambito della vita civile, sottraendo spazio alla Chiesa ed alle associazioni private. Istituì l’anagrafe civile presso i Comuni, trasformò il matrimonio in rito civile da legittimarsi da parte delle autorità comunali, obbligò a seppellire i morti nel nuovo cimitero, terminato nel 1809, e non più in chiese, conventi e sagrati. Lo Stato fece sentire la sua presenza anche con una capillare diffusione sul territorio di caserme, scuole, uffici postali, presidi sanitari, tribunali. Certo, coi limiti del tempo (risorse, capacità, conoscenze, diffusione ecc.), ma in una direzione proseguita fra alti e bassi fino ai tempi nostri. Purtroppo, lo Stato si fece sentire anche attraverso la coscrizione obbligatoria, che fu secondo molti storici una delle principali cause del mancato consenso popolare al regime napoleonico. Si calcola che nel periodo napoleonico in Italia siano stati arruolati circa 450.000 soldati, dei quali circa 350.000 deceduti nelle varie campagne militari (dalla Russia tornarono in mille, su circa 28.000 italiani partiti!). Negli ultimi cinque o sei anni del periodo napoleonico, con l’intensificarsi delle guerre, i coscritti della sola Cremona furono circa un’ottantina all’anno. E molti non tornarono! Perciò, molti furono i tentativi di sottrarsi all’arruolamento. Aumentò grandemente l’affluenza al Seminario (i seminaristi erano esclusi dal servizio militare), crebbe il numero dei matrimoni (perché gli sposati venivano arruolati solo se i celibi non erano in numero adeguato), i ricchi fecero ricorso al sistema allora perfettamente legittimo dei ‘sostituti a pagamento’ o ricorrendo a medici e funzionari compiacenti (con ciò accrescendo il malumore popolare). Chi non poteva fare altro e proprio non voleva andare militare, ricorreva alla renitenza, alla diserzione e si dava alla macchia. Furono tantissimi i briganti negli ultimi due anni dell’Impero. Come quasi sempre, anche questo momento storico (1796-1814) ha dunque due facce: una di progresso e l’altra di dolore e sofferenza.
Gian Carlo Corada
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