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Storia di Mario

21 Ottobre 2022
“Storia di Mario” , racconto della scrittrice cremasca Licia Tumminello, è stato selezionato nell’ambito del XVIII Premio Letterario “Caratteri di Donna” indetto dall’assessorato Pari Opportunità del Comune di Pavia in collaborazione con l’ufficio del Consigliere di Parità della Provincia di Pavia e il Comitato Unico di Garanzia dell’Università, e con il contributo della Palestra di Scrittura. Il racconto della Tumminello è entrato pertanto di diritto nell’antologia 2022 che raccoglie i 19 migliori racconti tra i  210 pervenuti. Il Premio, di rilevanza nazionale, aveva quest’anno come tema l’Orizzonte e ha visto vincitore Marco Bianciardi con Gli Orizzonti di Stanli; al  secondo posto Wilma Avanzato con L’Orizzonte di Agnese; terzo posto per Maena Delrio con Ristretti Orizzonti. Il premio speciale per il miglior elaborato di studente/studentessa è stato assegnato a Marta Andrea Zambianchi con Solo Genesis.
Il Premio Letterario “Caratteri di Donna”, si legge nell’ultima di copertina, ha voluto offrire a scrittori e scrittrici per passione l’opportunità di raccontare il proprio Orizzonte, proponendo di aprire lo sguardo verso mondi sconosciuti o insondati.
Per la scrittrice cremasca un riconoscimento che conferma la validità della sua scrittura e si aggiunge a quelli ricevuti negli ultimi mesi.
STORIA DI MARIO
Il giovedì, in via del Salice, passa il camion della raccolta differenziata. «Il signor Mario, però, ieri sera non l’ha messa sul marciapiede». La dirimpettaia si era stupita: il signor Mario è preciso, ogni mercoledì sera dopo cena butta la spazzatura. E neanche stamattina c’era il “suo” sacco. Preoccupata, ne aveva parlato col vigile. Che aveva chiamato il 113. Quando le forze dell’ordine forzano la porta dell’interno 12, civico 43, tutto appare in ordine. Come se il proprietario fosse uscito per comprare il pane, o per andare in ufficio. Solo un leggero tanfo di rinchiuso. Nella stanza da letto una camicia sulla sedia, accanto a una cravatta; le pantofole allineate sotto il comodino. In cucina la moka vuota, e una banana annerita sull’alzata, al centro del tavolo; nel frigo sei lattine di birra e poco altro. Due cicche nel portacenere e un pacchetto di Marlboro in salotto. Sul bracciolo della poltrona un libro, con l’orecchia a pagina centoventitrè. Niente che faccia ipotizzare una rapina, una colluttazione, o persino la presenza di estranei. Niente di niente.
«No, aspettate». Il brigadiere si volta verso l’appuntato. Questi, con un cenno del capo, indica ilbagno. Macchie di sangue sul lavandino, e anche sull’asciugamano, nel cesto della biancheria. L’errore dell’assassino, la traccia sfuggita a un’accurata pulizia.

«Chiamate la scientifica».

Qualcosa è successo, in quell’anonima, civile abitazione. I giornalisti, assiepati dinanzi all’ingresso della banca dove lavora il signor Mario, attendono l’uscita dei dipendenti. Il Direttore si schiarisce la voce. Bravissima persona, educata, professionale. Il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via. Da ventidue anni in questa filiale. Era – pardon, è – la memoria storica. Aveva telefonato lunedì sera: era indisposto. Perché non ci siamo preoccupati? Aspettavamo il certificato medico. Cosa penso? Beh. Di certo gli è successo qualcosa. Ferie? Impossibile. Le ha fatte a settembre. Amici? Mah, non saprei. Il dottor Morra era suo amico. Lui può saperne di più. O la Vittoria.

Mario Simoni aveva lasciato le chiavi dell’auto sulla consolle dell’ingresso, l’accendino accanto al
pacchetto di sigarette ancora intatto, comprato la sera prima, e anche il cellulare. Persino la
ventiquattrore, da cui non si separava mai. In tasca solo il portafoglio con soldi e documenti. Aveva chiuso dietro di sé il portone e le certezze degli ultimi vent’anni, e si era incamminato. Doveva rimanere concentrato, non preoccuparsi né farsi prendere dall’agitazione. Dinanzi a sé una densa cortina grigia, ma il più era fatto. Con la mente ubriaca da tanto osare e il passo incerto di quando, bambino, dopo una lunga pattinata rimetteva le scarpe e gli pareva di essere ancora in pista – alto, ondeggiante, con le rotelle ai piedi – alle 9,35 era salito sul regionale per Brescia, che era in ritardo di sei minuti. Lui il treno non lo prendeva mai. Per evitare che il panorama scorresse troppo velocemente, ché altrimenti gli sarebbe venuto di sicuro il mal di testa, si era seduto con le spalle alla motrice. Aveva chiuso gli occhi, e lo sferragliare del treno si era amplificato: colonna sonora di visioni che, come ombre cinesi, scorrevano mostruose dietro le
palpebre. La percezione degli altri passeggeri – presenze estranee, i cui movimenti non poteva
controllare – lo disturbava, e l’angoscia aumentava, in misura inversamente proporzionale all’ampiezza dei suoi respiri. Aveva riaperto gli occhi, controllato l’ora, allentato la cintura dei pantaloni, messo la mano in tasca, aperto un blister e ingoiato una compressa. L’appuntamento era per le 12,45. L’arrivo del treno previsto per le 11,22. Ce la faccio, anche se dovesse ritardare.

Francesco Morra è di cattivo umore. Chi può aver dato il suo cellulare a quella giornalista?
«Non ho niente da dire».
Aveva sempre riposto fiducia nelle operazioni che Mario gli sottoponeva per la firma, andava con lui a prendere il caffè, gli organizzava l’agenda e interveniva se i colleghi lo prendevano in giro, ma non era suo amico. Mario, di amici, non ne aveva.

«Riusciamo a fare tutto in giornata?» aveva chiesto Mario.
Ho impegni improrogabili; se sballano è un casino.

La domanda era rimasta nell’aria: un filo di fumo. Da quando il dottore lo aveva congedato, dopo il consulto, erano passati due minuti e ventuno secondi. L’infermiera, un registro tra le mani, sfogliava, annotava e pareva non aver sentito. Mario era imbarazzato; la replica gli era morta in gola. Finalmente, con un sorriso da Gioconda, la donna l’aveva guardato al di sopra delle lenti. «Pensi a riposarsi un po’». Una leggera pacca sulla spalla, e Mario si era ritrovato solo.

Avrei dovuto insistere. Il taglio sotto l’orecchio, fatto al mattino nel radersi, aveva ripreso a sanguinare e macchiato la camicia: non doveva costituire un problema. Non ora; ce n’erano altri, ben più gravi, da affrontare. E adesso?

«Dottoressa Vittoria Sacchi? Che cosa può dirci del suo collega, Mario Simoni?».
«Oddio, non che lo conosca bene… Qualche caffè, due parole ogni tanto. Un uomo gentile, taciturno. Non saprei, insomma».
Con un sorriso alla telecamera la Vittoria si aggiusta il collo di pelliccia, e accelera il passo.

Una nave in disarmo, ecco come Mario si sentiva.
«Riposo, riposo». Le parole del medico – come le pulsar sul desktop del suo computer – erano la
conferma di quanto da tempo negava a se stesso.
Non ho avvertito il direttore.
Quarantatrè chilometri ogni mattina per andare al lavoro; altrettanti per tornare, che era ormai buio. Cinquantacinque minuti di strada, se non c’erano intoppi, ma per sicurezza lui partiva con dieci di anticipo. Ogni giorno, per cinque giorni alla settimana. Il sabato insorgeva il mal di testa; pastiglia e bicarbonato spesso non bastavano. La domenica era interminabile e la sveglia interiore non gli riconosceva il diritto al sonno festivo. Ore vuote, pesanti come un macigno sullo sterno, a togliere il respiro. Non era facile riempirle: birra, sigarette, Netflix. Supermercato. I nipoti erano cresciuti e non lo cercavano più.
Mi chiameranno al cellulare.
E chi poteva cercarlo? Sua sorella? Era sempre lui a telefonarle. Francesco?
Erano amici, almeno così credeva.
Perché mi ha fatto questo?
«Non so più che fare» aveva detto Francesco.
«Convincilo. Inventati qualcosa» aveva detto il capo.
«È un coglione» aveva detto Francesco.
Coglione. Ha detto proprio così.

Lui, il coglione, era dietro l’ultima porta, la più lontana, nel gabinetto che non usava mai nessuno, se non lui.

In via del Salice fioriscono i commenti: hanno messo i sigilli, c’è qualcosa che non quadra. Il signor Mario? Era sempre al computer e al giorno d’oggi, col computer, ne fanno di tutti i colori. Visite? No, non riceveva nessuno. Donne? Ne veniva una, sì, per le pulizie, ma quando lui era al lavoro. Aveva le chiavi.

Il bus per Manerba sul Garda, delle 11,42, impiega un’ora e sedici minuti.

Mario cerca con lo sguardo il lago e controlla l’orologio.
Un’ora e sette minuti, dovremmo esserci.
Pini marittimi costeggiano la strada, ogni tanto un cipresso; all’interno, la campagna: prati, ville
eleganti e ordinati ulivi, bassi, diritti, tutti uguali, non come quelli storti e nodosi dei campi in Puglia. Quelli parevano vecchi dal corpo deforme, le braccia protese e le dita ossute, morsi dalla tarantola.
Eccolo!
A Manerba acquista un panino e una birra. Anche una camicia, due paia di boxer e una confezione
regalo con sei calzini. Raggiunge a piedi un albergo tra gli ulivi, a pochi passi dal lago. L’unico aperto, in questa stagione. Siede in terrazza e non sente più i rumori consueti. Questi nuovi lo stordiscono: le campane di una chiesa lontana, le onde che s’infrangono sulla battigia, il richiamo dei gabbiani, le pagine del giornale sfogliato dal vento.

Quando riesce ad allontanare il pensiero da ciò che non ha fatto – sono lì a un passo, le omissioni, a mettergli angoscia – allora avverte una pace quasi tranquilla. Quasi senza rimorsi.
Deve imparare a non guardare l’orologio e fermarsi. Abbandonarsi. Finché i muscoli non abbiano
bisogno di muoversi e gli occhi di guardare, fino a quando lo stomaco non reclami il cibo.
Il cielo è di un celeste acquoso; l’orizzonte, sfumato. Sarà l’umidità, che nasconde l’altra sponda. Che illude.
È dunque un’illusione, l’orizzonte?
Da ragazzo, appollaiato sugli scogli, stava ore a contemplarlo: era nitido e vasto, come la vita dinanzi a sé. Gli quietava l’anima, e si sentiva al centro del mondo. Poi l’aveva trascurato. Infine, perso.
Ma come? Perché?
Sarebbe rimasto lì. Tutto il tempo necessario per ritrovarlo. Per ritrovarsi.

Mario sfoglia il giornale appena acquistato. L’annuncio della vendita della casa in via del Salice è già pubblicato, col numero di cellulare di sua sorella per maggiori informazioni.

 

Licia Tumminello

3 risposte

  1. Scritto con particolare attenzione ai dettagli intorno a lui, scorrevole. Il tutto velato da un non so che di melanconia e nostalgia, almeno per me. Complimenti Licia.

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