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‘The Father – Niente è come sembra’

30 Agosto 2021

È possibile esprimere l’inesprimibile, comunicare l’incomunicabile? Più chiaramente: si può cercare di entrare nella mente di un uomo che, vittima di una forma di demenza senile, ha interrotto tutti i canali di comunicazione, chiuso in una solitudine che nega anche la più elementare forma di interazione? Del resto, le stesse categorie mentali che consideriamo ‘naturali’ in ciascun soggetto, sono infrante, e mescolate fra di loro, alla deriva come un mucchio di detriti.
L’intuizione, geniale, del regista Florian Zeller (che già l’aveva adottata nella pièce teatrale da cui il film è tratto) consiste nel far coincidere il film ‘The father’ (eccettuate, forse, le ultime sequenze) con un lungo monologo interiore, fatto di immagini che plasmano un mondo in apparenza simile a quello comune, in realtà sottoposto a leggi interne, inafferrabili, che non coincidono mai con quanto le persone ‘normali’ pensano e sentono. Così, salta prima di tutto la capacità di fissare i tratti di una persona, la cui identità assume di volta in volta caratteri diversi; il tempo è spezzato, scomposto e ricomposto a piacere; frammenti di realtà ritornano ossessivamente (si pensi al motivo del pollo preparato per la cena dalla figlia, che ritorna nei contesti più diversi o a quello della figlia che deve trasferirsi a Parigi) e vengono combinati in una narrazione slegata che lascia smarriti sia gli spettatori che il protagonista (ed è veramente sublime l’interpretazione di Hopkins che procede smarrito e a tentoni in una realtà e in un ambiente che dovrebbero essere i suoi e che non riesce più a comprendere e a controllare). A tratti, la consapevolezza di essere un peso, un inciampo nella vita delle persone più care si trasforma nelle parole ostili che egli attribuisce a persone che considera nemiche (il compagno della figlia che vorrebbe confinarlo in un ospizio) e sono invece l’espressione di una sofferenza interiore e di un’angoscia che si rivelano nel pianto regressivo dell’ultima inquadratura.
The Father affonda le radici in un tentativo di fare luce dentro una coscienza offuscata, ma la sua ricchezza e la sua complessità derivano anche dal valore metaforico del destino di questo vecchio orgoglioso e fragilissimo: il suo scollamento dalla realtà corrisponde a quello esistenziale, doloroso, di ogni uomo che si sente smarrito in una realtà che tenta vanamente di comprendere e di addomesticare, sovrapponendogli etichette e segni di riconoscimento talmente labili da confondersi e da disperdersi davanti ad un incidente, o a un deterioramento delle cellule cerebrali.
L’essere umano è una macchina che si rompe e si inceppa, o una porta che si chiude, come spesso avviene, metaforicamente, nel film: tazze da tè che sfuggono di mano e si infrangono; un rubinetto che perde; un lettore di musica che si inceppa. Nel lasciare la casa di cura, la figlia (un’Olivia Colman che non delude di certo) si lascia alle spalle una scultura che rappresenta una testa enorme, ma incompleta, priva della parte superiore.
Se il meccanismo si guasta, la scienza conosce solo rimedi scarsi e approssimativi; la degenerazione non può essere fermata. L’unica risorsa disponibile rientra nella sfera della pietas umana, della solidarietà: la cura degli altri esseri umani che abbracciano, confortano e rassicurano come il film rivela nella scena finale, un palese richiamo alla Pietà michelangiolesca. L’ultima inquadratura mostra una natura verde e rigogliosa, forse a simboleggiare la resistenza al male e il dovere di ricavare, da questa vita, tutto quello che di consolante e sereno è concesso agli uomini.

 

Vittorio Dornetti

 

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