Andare da una località all’altra, anche a poche decine di chilometri, richiedeva, alla metà del secolo scorso, impegno soprattutto se il mezzo di trasporto era la bicicletta o il Mosquito, dotato di un piccolo motore, che andava spesso aiutato pedalando. Anche con un’utilitaria, termine con cui si indicava una vettura di piccole dimensioni e con un’unità motrice di scarsa potenza, il trasferimento richiedeva concentrazione sia per non uscire di strada sia per evitare di investire qualche pedone. Le norme del codice stradale non erano ancora state metabolizzate dalla gente e spostamenti improvvisi sulla carreggiata o attraversamenti di vie e strade erano del tutto imprevedibili. Man mano che ci si allontanava dalla città, le strade, comunali provinciali o statali, diventavano quasi deserte e incutevano inquietudine per la possibilità che si parasse davanti all’improvviso qualche animale o sbucasse sulla strada qualche contadino, attirato dal rumore e dalla curiosità di vedere un’automobile in transito. Contribuiva a creare ansia anche il timore di restare a piedi.
Il panorama della campagna, visto dai finestrini, emanava un fascino nuovo che a volte si scopriva rallentando. Spesso ci si fermava per fare due passi per sgranchire le gambe. Le strade di allora, poco battute, offrivano il luogo ideale, per chi possedeva un’auto, per scambiare effusioni amorose con la fidanzata in totale riservatezza: l’albergo a ore era molto raro nel Cremonese e, quand’anche ci fosse stato, sarebbe stato impossibile convincere la ragazza a entrare. Avrebbe opposto un secco no per paura di essere vista e di macchiare così la sua reputazione che doveva, secondo le imposizioni familiari e i canoni educativi di allora, restare illibata.
Giuseppe, un giovane panettiere con alcune macchie scure sulla fronte che chiamava autoironicamente “i tatuaggi di madre natura”, possedeva una Fiat 600, acquistata usata dagli eredi di un agricoltore defunto, targata CR 29359. Offrendo passaggi alle ragazze, la domenica sera, alla chiusura del dancing di via Persico, alla periferia della città, aveva avviato una specie di amicizia con Luisa, commessa in uno dei primi grandi magazzini, che poi si era trasformata in fidanzamento grazie alle soste notturne prima e poi anche diurne su questa o quella strada fuori città sempre quasi deserte. Con il consenso della ragazza, gli slanci amorosi diventavano sempre più invadenti, ma quando il giovane panettiere pensava di arrivare alla naturale conclusione, sulla soglia dell’atto carnale gli veniva imposto l’alt, per via della reputazione da salvare. Luisa, tuttavia, non lesinava tutto il resto. Nei mesi freddi il calore prodotto dai corpi durante le sedute amorose appannava i vetri all’interno dell’auto mentre i tipici umori che si sprigionano in queste operazioni impregnavano perfino il panno che ricopriva i sedili.
I protagonisti delle storie d’amore, a volte, sono presi da separazioni impreviste e Luisa dovette trasferirsi con la famiglia a Torino perché suo padre, disoccupato, era stato assunto alla Fiat come operaio. La distanza non è amica degli innamorati e come quasi sempre succede si avverò il detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Per Giuseppe fu un duro colpo, non riusciva a rassegnarsi ma la constatazione delle difficoltà di avere contatti anche telefonici alla fine prevalse e dovette fare buon viso a cattiva sorte. Vendette la 600, per annullare i ricordi e l’amarezza degli incontri perduti.
Vent’anni trascorsero senza sapere più niente di Luisa, quando, un giorno di marzo del 1978, Giuseppe fu costretto a far visita a un amico d’infanzia, divenuto meccanico, che non vedeva dalle elementari, a causa di un guasto alla nuova macchina, che non aveva più voluto saperne di muoversi proprio davanti all’officina. Entrando nel piccolo capannone dove avvenivano le riparazioni, il suo cuore trasalì: tra alcune auto aveva letto la targa di una vecchia 600: era la sua. Nel suo cervello si spalancò il deposito dei ricordi e in un attimo sfilarono davanti agli occhi dell’immaginazione i fotogrammi delle fasi della sua grande storia d’amore finita in una grande tristezza. Chiese al meccanico di poter salire a bordo e sedette di nuovo al volante della sua macchina, dopo così tanto tempo. Passavano i minuti e Giuseppe sembrava immobile. Preoccupato, il meccanico si avvicinò per vedere se per caso si fosse sentito male. Tese l’orecchio e l’udì ripetere, tra lunghi respiri: “Ti sento Luisa! Ti sento Luisa!”.
Sperangelo Bandera