Il 10 febbraio è il Giorno del Ricordo, istituito nel 2004 per ricordare le vittime delle foibe e gli esuli dalla Venezia Giulia, dall’Istria e dalla Dalmazia nel secondo dopoguerra. È il giorno in cui nel 1947 con il trattato di Parigi buona parte della Venezia Giulia, l’Istria, la Dalmazia, il Quarnaro e Zara furono tolte all’Italia e assegnate alla Jugoslavia.
Era la sconfitta definitiva di decenni di irredentismo, iniziato dopo la Grande Guerra con l’occupazione di Fiume da parte di Gabriele D’Annunzio e dei suoi Legionari. Ancora oggi al Vittoriale la prua della nave Puglia punta dritta come una spada verso quello che il Vate chiamava “l’amaro Adriatico”, proprio in ricordo della perdita di Fiume.
Il destino e la Storia vollero che quella pagina amara si trasformasse in vera e propria tragedia 20 anni dopo, con due epiloghi altrettanto tragici: il più noto è la strage delle foibe, le grotte in cui i partigiani jugoslavi gettarono i resistenti italiani, civili e militari, massacrando tra le 3.000 e le 11.000 persone, perché la contabilità dei morti non quadra mai.
L’istituzione di questa giornata fu fortemente voluta da Ignazio La Russa e dal centrodestra, ma passò grazie anche al contributo di Willer Bordon, ex deputato del PCI che di quelle terre era figlio e fu approvata dall’allora presidente Carlo Azeglio Ciampi.
Se come diceva Stalin la memoria è potere, le commemorazioni ahinoi non sfuggono mai a questo triste destino: da un lato sono un tributo doveroso ai morti di una tragedia, dall’alto diventano strumento di scontro politico. Non ne è esente il Giorno della Memoria quanto quello del Ricordo, e anche quest’anno non sono mancate polemiche a ricordarcelo.
Con non poca amarezza ho dovuto constatare però che tra i più giovani, invece di un ricordo storico obiettivo ha prevalso ancora una banalizzazione dei fatti legata alla appartenenza politica: i martiri delle foibe erano fascisti da un lato, dall’altro gli orrori del comunismo non si vogliono riconoscere e così via…e come sempre in questi casi il dilagare dei social produce effetti assolutamente deleteri, e la commemorazione ha il difetto di circoscrivere gli eventi ad un singolo episodio drammatico, dimenticando gran parte del contesto che lo ha generato.
Personalmente ho sempre creduto che morire faccia parte naturale del dramma della vita umana almeno quanto lo scontro e l’omicidio, e gli eccidi e gli orrori che escono dalle guerre ne sono inevitabilmente parte. E così troppo spesso la retorica sui morti ci fa dimenticare i vivi: il 10 febbraio non solo ci deve ricordare i morti delle foibe, ma anche le migliaia di disgraziati che dovettero abbandonare tutto quello che avevano: gente operosa, benestante, che tanto aveva costruito con fatica e che venne privata di tutto, scacciati come vagabondi e accolti letteralmente come “profughi” nelle (poche) parti di Italia che se li vollero prendere.
Proprio nel 1945 il Comune di Milano lanciò una sottoscrizione nazionale a favore delle popolazioni della Venezia Giulia, colpite dalla tragedia, e lo Stato istituì l’ Opera Nazionale Assistenza Profughi Giuliani e Dalmati, che fino al 1955 si occupo’ di fornire un minimo sostentamento economico, alimenti, piccole abitazioni popolari costruite in convenzione coi Comuni e di sostenere l’inserimento scolastico dei piccoli esuli.
Tra i tanti sostenitori vi fu uno dei più grandi imprenditori italiani, quell’ Elio Bracco, ànch’egli esule fiumano, che fondò una delle più importanti aziende farmaceutiche italiane.
Ma c’è un rovescio della medaglia anche sul fronte comunista, che non andrebbe mai dimenticato: il Maresciallo Tito era senza dubbio un dittatore sanguinario, ma dobbiamo in buona parte a lui se Stalin rinuncio’ definitivamente alle sue mire sull’Italia.
Tito nel 1948 si sfilo’ definitivamente, con tutta la Jugoslavia, dalla sfera di influenza sovietica costituendo di fatto un formidable salvagente per l’Italia. Oggi sappiamo che quando Togliatti chiese a Stalin se doveva prepararsi alla insurrezione armata comunista in Italia (oggi pare surreale ma la cortina di ferro nell’ immediato Dopoguerra scese quasi sempre con questa modalità mista di insurrezione popolare e intervento sovietico) , il georgiano addusse tra le motivazioni contrarie proprio la Jugoslavia di Tito: se i comunisti italiani avessero avuto bisogno dell’aiuto dell’Armata Rossa, Stalin avrebbe dovuto invadere la Jugoslavia, un paese neutrale, prestando il fianco alla relazione militare degli Alleati.
E non possiamo dimenticare nemmeno che Tito fu oggetto anche di “attenzioni particolari” da parte di Stalin: Tito ebbe una peritonite proprio appena dopo aver abbandonato l’URSS e Stalin gli inviò quale gesto distensivo i suoi migliori chirurghi, i quali però lo operarono con ferri avvelenati su mandato sovietico. Ma la straordinaria mole fisica di Tito ebbe la meglio: si fece rioperare dai suoi medici e rimando’ a Mosca i tre chirurghi di Stalin a pezzi dentro a tre valigie diplômatiche: da allora in poi il saggio georgiano non si occupò più della Jugoslavia.
Insomma, la Storia è sempre più complessa delle banalizzazioni politiche, e che a distanza di tanti anni ancora prevalgono queste ultime davvero non è un buon segno.
Francesco Martelli
sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
docente di archivistica all’Università degli studi di Milano
cremonasera.it