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Un nobile setter

8 Aprile 2022

Un nobile setter

The poplars are fell’d! Farwell to the shade
And the whispering sound of the cool colonnade;
The wind play no longer and sing in the leaves…
(William Cowper da “The poplar field”)

Giovedì mattina. Ore 10.30. Sulla via Emilia il traffico è piuttosto intenso, ma scorrevole. Spero di non incappare nei lavori in corso: basta poco perché si formino code molto lunghe e non sarebbe proprio il caso. Purtroppo non è difficile incontrarne: il governo ha riempito le strade di cantieri per dimostrare la propria sensibilità alle infrastrutture e inoltre i rondò – grazie al finanziamento della CEE – nascono come funghi. Cerco di convogliare il mio malumore sulla sconfitta di domenica dell’Inter, che ha perso incredibilmente lo scudetto all’ultima giornata di campionato; ma non sono le lacrime mediatiche di Ronaldo ad imprigionarmi il cuore in una morsa che mi opprime con un’ angoscia greve: in fondo chissenefrega delle delusioni di un giovane miliardario in mutande! No… no… a stringermi la gola con un magone grosso come una casa è il ricordo di Michele, il mio setter bianco e arancio che dopo dieci anni di convivenza – una sorta di simbiosi – ho dovuto far sopprimere ieri pomeriggio. L’avevo incontrato per caso mentre, passeggiando con mia moglie per i boschi di Carrega a Sala Baganza, ero in attesa che aprisse il ristorante e già pregustavo il savarin di riso e funghi. Era sbucato improvvisamente da un sentiero laterale ed Emanuela aveva esclamato: “Guarda che setter! a te che i setter piacciono tanto…”

Era davvero un esemplare molto bello di circa tre anni, dal portamento naturalmente elegante, l’aria un po’ persa nelle nuvole, direi quasi blasé: insomma, la svagatezza che si addice a un dandy incurante delle proprie ristrettezze contingenti e tuttavia fiducioso in un futuro migliore. Lo teneva al guinzaglio una ragazza in divisa da guardia forestale che, intuendo la possibilità di accasarlo, ci aveva subito spiegato: “L’ha perso qualche bracconiere… qui però i cani non ci possono stare e l’amministrazione ha già dato l’ultimatum. O troviamo chi se lo prende o finisce all’istituto universitario di farmacologia…”

Lì per lì chiesi tempo; l’impegno non era da poco, ma l’allusione alla farmacologia mi era insopportabile e così, cinque giorni dopo, il setter mi veniva recapitato a domicilio. Lo battezzammo subito Michele: un nome inconsueto per un cane, ma col tempo avremmo scoperto che gli calzava a pennello. Riservato per carattere, non era molto espansivo con gli altri componenti la famiglia: in realtà aveva adottato me come suo partner esclusivo e così mi restava sempre appiccicato, tranne quando mi allontanavo dalla città per le destinazioni in cui non avrebbe potuto seguirmi. E allora, nella buona stagione, lo portavo in campagna da Claudio e dalla Stefy che lo trattavano come un principe: in fondo quelle mie assenze, che sapeva limitate a pochi giorni, non lo disturbavano; anzi le interpretava come una sorta di villeggiatura e ne approfittava per disintossicarsi dall’inquinamento cittadino, per sfogarsi a galoppare sul prato di un paddock – circondato da netti filari di pioppi e con al centro una grande quercia – che aveva finito col prediligere. Lo tenevo con me anche durante il lavoro: nel mio studio gli avevo riservato una comoda poltrona in radica degli anni ’30 – con l’imbottitura in pelle ormai logora – che gli conferiva un’aria d’altri tempi, molto chic. Quando entrava un visitatore sollevava pigramente la testa, degnava il nuovo venuto di un’occhiata distratta senza mai abbaiare e se ne tornava presto ai suoi indecifrabili pensieri; quando poi l’estraneo se ne andava, ne seguiva l’uscita restando immobile, semplicemente aggrottando i sopraccigli.

Ecco che sono già fermo in coda… ma non sono lavori in corso: è un semaforo sulla circonvallazione di Parma. Devo stare attento: con tutti questi svincoli che, anziché semplificarle, complicano maledettamente le cose. Non voglio perdere l’uscita per Reggio. Guardo il cielo: quando sono partito pioveva e un’unica nuvola estesa e compatta occupava tutto
l’orizzonte… meglio così: la temperatura non si è ancora alzata e per il mio tragitto il caldo non sarebbe l’ideale. Adesso però vedo che il sole sta facendosi strada e la rifrazione dei primi raggi, attraverso le gocce di pioggia, crea riflessi iridati. Sono impaziente, maledico la coda… devo affrettarmi se voglio arrivare a destinazione prima che il sole esca del tutto
e riscaldi l’aria. Ah, finalmente la coda si sgrana e azzecco l’uscita giusta della tangenziale. In breve attraverso il ponte sull’Enza a S. Ilario. Penso ancora a Michele… agli ultimi giorni. Era ridotto proprio male. Avevo dovuto portarlo in campagna perché, rifiutando spesso il cibo, gli mancavano le forze per fare le scale di casa e poi, quando riusciva a mandar giù qualche boccone, erano più le volte che lo vomitava o lo passava come diarrea… ormai il suo cuore pompava a stento e il metabolismo stava andando a rotoli. Anch’io restavo quasi tutto il giorno in campagna ad assisterlo, a cercare di farlo mangiare illudendomi che potesse riprendersi e lo lasciavo per la notte… finché il veterinario mi ha convinto: “Senta, se vuole risparmiargli una brutta fine le consiglio di sopprimerlo… adesso non soffre, ma l’edema polmonare può arrivare da un momento all’altro, e allora…” Gli ho chiesto due ore di tempo da passare con il mio cane sulle ginocchia. Michele si spegneva come una candela arrivata al lumicino. Il suo sguardo ormai perso a tratti si ravvivava e, guardandomi, pareva che si rimproverasse di dovermi abbandonare, che si sentisse in colpa.

Per l’ultimo atto avevo ideato una messa in scena. Non volevo che intuisse di andare incontro a una specie di esecuzione capitale: avevo letto che i cani se ne rendono conto e si sentono traditi. Così l’ho preso in braccio e l’ho portato verso la macchina; il veterinario, tenendosi nascosto dietro di me e seguendomi carponi con movenze abbastanza buffe, era riuscito a iniettargli la prima dose di anestetico senza che lui se ne accorgesse: nel giro di qualche minuto si sarebbe addormentato. L’ ho posato sul divanetto posteriore che era ancora sveglio, mi sono messo alla guida dicendogli che stavamo tornando a casa e mi sono avviato per l’argine che immette sulla provinciale. Quando ho capito che dormiva profondamente sono tornato dal veterinario che gli ha fatto la seconda iniezione, quella letale. Tutto si è svolto rapidamente, nel giro di un quarto d’ora. Ho accarezzato ancora Michele mentre Claudio e la Stefy gli stavano sistemando le zampe, prima che le membra si irrigidissero, in una postura che ricordava il tempo di galoppo dell’animale quando si raccoglie per lo slancio successivo. Michele avrebbe galoppato nei ‘pascoli del cielo’, che da bambino immaginavo popolati da Pecos Bill e dagli altri riders of the sky, i leggendari cow boys… sarebbe stato in buona compagnia. Poi l’hanno infilato in un sacco nero e l’hanno portato in cella frigorifera mentre io guardavo sconsolato il paddock dove non l’avrei più visto correre: e all’improvviso, per un istante, mi è parso che per un misterioso sortilegio fossero scomparsi con lui anche i pioppi e la quercia. Mentre saldavo la parcella, ho chiesto al veterinario cosa ne sarebbe stato dei resti del mio compagno di tante camminate serene e rasserenanti. Come prevedevo mi ha confermato che sarebbe finito nell’inceneritore comunale. Mi viene allora spontaneo domandargli se avrei potuto conservarne le ceneri. “Vengono cremati in batteria di quattro o sei per volta… – precisa –  è impossibile isolare le ceneri…- rimane un attimo pensieroso e continua – però a Reggio Emilia c’è un canile dove possono cremarli isolatamente, ma bisogna prenotare e costa un centinaio di euro.” L’ho pregato di informarsi, immediatamente. Ho avuto fortuna e ho ottenuto l’appuntamento per oggi a mezzogiorno: ed eccomi dunque in viaggio verso Reggio. Ormai il sole sta occupando incontrastato il cielo; dopo la pioggia l’aria è trasparente e la luce mi abbaglia, ma sono quasi arrivato. Ho superato il cartello di città e sono nella periferia.

D’un tratto vedo la paletta rossa di una pattuglia dei carabinieri che mi intima l’alt. Un milite giovanissimo – sicuramente una recluta – si affaccia al finestrino e abbozza un saluto militare mentre poco distante, vicino alla gazzella, lo osserva un brigadiere di mezza età. “Per cortesia patente e libretto.” Intanto che lui controlla i documenti io scendo. Il giovanotto mi squadra. “Lo sa che c’è il limite dei cinquanta?” Annuisco e cerco di non dimostrare impazienza: in realtà ho molta
fretta… l’aria si sta scaldando rapidamente. “Stava facendo i sessantadue… è segnato sul radar…” Allargo le braccia come a dire ‘veda lei, ma si decida…’- La recluta controlla i battistrada: sono a posto. Poi mi chiede del triangolo. Cazzo! Devo aprire il bagagliaio. Quando vede il sacco nero il carabiniere si irrigidisce, fa un passo indietro e mette la mano sulla fondina. “Cosa c’è lì dentro?” adesso la sua voce è tesa. Vorrei rispondergli che c’è un cadavere, così… sic et simpliciter, senza specificare, ma non è il caso di fare scherzi e allora preciso: “C’è il mio cane morto ieri. Ho qui il libretto e la dichiarazione del veterinario…” Nel frattempo arriva il brigadiere che capisce tutto al volo e manda il giovane a fare le ultime verifiche amministrative al computer che hanno in macchina.

“Era da caccia?” mi domanda comprensivo.
“Sì. Un magnifico esemplare di setter inglese bianco e arancio.”
Con delicatezza il brigadiere sfiora il sacco e continua: “ Sono anch’io cacciatore. Era bravo?”
“ Un fenomeno.”
“ Anche in acquitrino… con la selvaggina d’acqua?”
“ Soprattutto con quella… doveva vederlo di punta con le anitre selvatiche…”

Sto mentendo spudoratamente. Michele aveva paura del colpo e certamente era stato abbandonato per quello; era terrorizzato dai temporali e quando sentiva i fuochi d’artificio e i botti di capodanno veniva travolto dal panico… e poi la pioggia lo infastidiva e per strada evitava accuratamente le pozzanghere. Infine, io non ho mai imbracciato un fucile da caccia. Ma non voglio deludere il buon brigadiere e neppure sputtanare Michele facendogli fare la figura dell’incapace… in fondo cosa mi costa?

Finalmente mi lasciano andare senza danni e, percorsi cinquecento metri, imbocco una laterale che mi porta, dopo un paio di chilometri, al canile isolato in mezzo ai campi. Mi accoglie una donna sui quaranta, abbastanza alta e robusta. Ha i capelli d’un biondo slavato ed è sciatta nell’insieme: porta un camice azzurro non molto pulito e calza un paio di stivali di gomma infangati. Controlla le mie generalità e verifica l’appuntamento. “Va bene,” – conferma –  le chiamo l’addetto.” L’addetto sembra uscito dalla corte dei miracoli: è vestito con una tuta da ginnastica scolorita con sopra un maglione qua e là bucato; in testa porta un berretto bisunto; è zoppo e da diversi giorni non si rade la barba, ma a suo modo è gentile e comprensivo. Spinge una carriola con sopra il sacco nero che contiene le spoglie del mio cane e mi guida per un centinaio di metri lungo un sentiero vicinale fino all’inceneritore. Sarà la suggestione del momento, ma l’aspetto annerito dell’impianto, anche in quella luminosità scintillante, è davvero lugubre.

Il monatto apre il portello di ghisa ed estrae un carrello che spolvera accuratamente: vuole dimostrarmi che non ci sono altre impurità a mescolarsi con le ceneri del mio cane. Poi apre il sacco con un taglierino; lo aiuto a liberare Michele e lo posiamo sul carrello. E’ proprio una povera carcassa fredda e irrigidita con il pelo – ai bei tempi lucido e fluente – opaco e scomposto: solo la testa ha conservata intatta la sua nobiltà. Lo accarezzo per l’ultima volta; poi il mio accompagnatore chiude il portello e mi invita a schiacciare i pulsanti che accendono l’impianto. Il monatto adesso ha l’aria di circostanza e accenna a qualche parola di conforto, poi si sente in dovere di darmi una spiegazione tecnica. “L’inceneritore ci mette circa mezz’ora per entrare a regime… sa deve superare i duemila gradi. Poi la salma – sic! – deve bruciare per almeno due ore e altre due servono perché le ceneri si raffreddino al punto da poter essere estratte. Sono comunque ancora molto calde. Le conviene procurarsi un contenitore adatto…”

Io ero già stato avvertito dal veterinario e mi ero provvisto di una robusta gavetta d’acciaio. Col tempo avrei travasato le ceneri in un’urna adeguata: avevo pensato a una sorta di canopo con il coperchio a forma di testa di setter, alla maniera degli Etruschi. E’ pomeriggio inoltrato quando salgo in macchina con le ceneri di Michele. Per un buon tratto ci avrebbe accompagnato un tramonto rutilante. Mentre avvio il motore, mi rivolgo al setter invisibile placidamente sdraiato sul divanetto posteriore e sussurro: “Adesso, Michele, si torna davvero a casa.”

 

Gianni Carotti

Tratto da “ L’occhio di Samuele “ – Racconti – Edizioni Campanotto

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