Una splendida famiglia nella violenza ottusa di ‘Belfast’

30 Agosto 2022

Da buon irlandese, Kenneth Branagh affida ai posteri, come Joyce, il suo ritratto di artista da giovane. Nello stesso tempo erige un monumento (inteso come “ricordo”, “testimonianza”) alla sua città, che appare a colori nelle prime inquadrature del film, e la cui popolazione è menzionata con affetto nell’epigrafe finale: “A quelli che sono rimasti, a quelli che se ne sono andati e a quelli che si sono persi”: una dedica che comprende l’intera popolazione, in linea con le istanze di tolleranza e di pacifica convivenza tra diversi che sono una delle anime del film.

Belfast è prima di tutto una storia autobiografica; il racconto della crescita di un bambino di nove anni in un momento storico difficilissimo: le violente lotte fra cattolici e protestanti nella Belfast del 1969, una serie di scontri che rimangono sullo sfondo, ma che influiscono con il loro clima violento e teso sulla vita quotidiana di una famiglia irlandese modesta, ma dalla morale incrollabile (incarnata soprattutto dalla madre). I giochi, le azioni un po’ irresponsabili, le competizioni in una scuola ancora rigidamente meritocratica, le amicizie che sfumano nelle primissime cotte, sfilano come se avessero un’esistenza propria e indipendente, quasi inconsapevoli della violenza che intride la vita
della collettività. In questo, nell’inserire il privato della famiglia nella comunità della via e nei drammi della storia, l’operazione c compiuta da Branagh non appare molto dissimile da quella realizzata da Sorrentino in E’ stata la mano di Dio. Anche in questo film, la vocazione
registica dell’autore sembra un destino già fissato fin dall’origine: nella passione per i racconti, nell’emozione suscitata dalle prediche terroristiche degli uomini di Chiesa (sempre un po’ ridicoli e parodiati nell’opera), dagli appuntamenti regolari e amatissimi con il cinema
per cui, in uno dei momenti più indimenticabili del film, un padre molto amato affronta il bullo fanatico della via non diversamente da Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco (e di proposito Branagh rappresenta lo scontro nello stile dei duelli western). Ma contano anche le storie veicolate dai fumetti, come dimostra la passione del piccolo protagonista per il personaggio di Thor, supereroe che diventerà il protagonista di un film che dirigerà da adulto.

Belfast è anche la storia di una famiglia splendida e l’affresco di un’epoca irripetibile che solo il ricordo (anche con i suoi inganni) sa far rivivere: per questo funziona benissimo l’intuizione di girare il film in bianco e nero per raccontare la vita ordinaria di un tempo che non ritornerà più (a parte il colore attribuito ai film visti dal bambino perché quelle sono le premonizioni luminose di un destino già tracciato). Amatissima la madre (perfetta nella parte Caitriona Balle), mostrata anche nella sua vivacità e nel suo fascino femminile (il vecchio Edipo sempre in agguato anche a distanza di anni) ma soprattutto nel suo coraggio fisico nel difendere i figli e nella sua onestà intransigente nei
riguardi del fisco e nel voler costringere i figli a restituire il frutto di un saccheggio odioso da parte dei protestanti. Il padre, un po’ pasticcione e superficiale, è figura presente nonostante il suo esilio lavorativo; si dimostra coraggioso a difendere, assieme al nonno, una
visione tollerante e pacifica della convivenza tra due confessioni religiose disposte ad annientarsi per odio. Il nonno (Ciaràn Hinds, una delle interpretazioni più convincenti del film) è saggio e conoscitore del mondo; dispensa humor e consigli che aiutano ed incoraggiano il nipote; la nonna (una Judi Dench a cui bastano poche inquadrature per bucare lo schermo) è scontrosa e brontolona, ma animata da uno schietto amore per il marito e i nipoti, ed infine generosa nell’accettare la solitudine pur di vedere realizzato il futuro della sua famiglia e il suo buon diritto di trovare la serenità e un lavoro sicuro.

Attorno a questo nucleo forte, e sullo sfondo di una violenza ottusa da cui Branagh prende continuamente le distanze, si muove una folla di comprimari che condividono la sorte del protagonista e della sua famiglia, tanto da rendere il film corale in alcuni momenti. L’aneddotica che caratterizza l’opera costituisce la forza, non il limite, di Belfast; contribuisce al ritratto di un mondo lontano, che palpita di una vitalità autentica, resa assoluta dal ricordo.

 

Vittorio Dornetti

 

 

 

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