Appassionata e grintosa nelle contrarietà, figuriamoci se Giorgia Meloni non lo è quando un giubileo nazionale offre, su un piatto d’argento, ghiotta occasione alla sua eloquenza. Eccola dunque dar fiato a un’esaltazione a tutto tondo delle radici nazionali che affondano nella fatidica data del 17 marzo 1861, nascita del Regno d’Italia. Senza radici non si vive, ci ricorda: verissimo. Ma già qui, nello scarto apparentemente trascurabile fra nazione e stato, la complicazione è in agguato. Mentre la formazione di veri e propri stati nazionali era già in atto nell’Europa del XII, secolo, l’Italia non fu altrettanto precoce. Fu un ritardo storicamente inevitabile ma in ogni senso costosissimo. In verità anche noi avevamo, con largo anticipo, cominciato a sentirci più o meno confusamente nazione in base a pochi ma decisivi elementi comun: lingua embrionale, religione, costumi ma principalmente l’eredità civilizzatrice e unificante della Roma classica. Tuttavia solo nella primavera del 1861 grazie a un eccezionale intreccio di valore e fortuna, eroismo e fredda diplomazia ma soprattutto di congiunture internazionali colte al volo, si giunse al sospirato traguardo. E tre mesi dopo il cuore di Cavour sfiancato dall’impresa cedeva. Dunque, su cosa mai siano le famose radici, tema ambiguo e divisivo, lo sguardo storico non sempre coincidere con quello politico. Dove la politica semplifica, nell’intento ovviamente legittimo di scolpire nel bronzo la sua verità di parte, la storia fa tutt’altro: registra e racconta la scomoda complessità del passato. Il metro temporale dello storico è infatti molto più abbondante e generoso di quello del politico e, senza nulla togliere a quel decisivo 17 marzo 1861 oggetto di doveroso ricordo e liturgia pubblica, non guasta ricordare che le date, in storia, non sono interruttori che, una volta girati, aprono capitoli totalmente nuovi. Sono, piuttosto, delicati e spesso precari compromessi fra un ‘prima’ che non vuole morire e un ‘dopo’ che non sarà facile scrivere. Questo, per l’appunto, fu il 1861.
I Savoia, dinastia più francese che italiana, diventavano il punto di riferimento simbolico oltre che istituzionale di un’Italia unita, per quanto non del tutto. Mancava il Veneto, annesso dopo plebiscito nel 1866. E, soprattutto, mancava una capitale del prestigio universale di Roma, annessa solo nel 1870. Tema nevralgico questo, perché la breccia di Porta Pia che abbatteva il potere temporale dei papi fu anche, e soprattutto, una breccia aperta nel sentimento collettivo di un paese di fresca e fortunosa unificazione. La contesa che si aprì fra Stato unitario e Chiesa divenne questione di coscienza e lacerante tensione fra identità cattolica e identità italiana. Lo stato unitario decollò dunque con i cattolici all’opposizione: una bella grana. Ci vollero i Patti lateranensi nel 1929 per sanare l’aspetto giuridico e finanziario. Ma toccò soprattutto alla Democrazia cristiana nel secondo dopoguerra pienamente reintegrarli nella vicenda nazionale. E fu così che da oppositori ideali dello stato monarchico divennero pilastro politico di quello repubblicano. Suggestivo paradosso. Lo sforzo della classe dirigente unitaria, come attesta la produzione legislativa fra 1860 e ’65, fu enorme e l’unificazione amministrativa immediatamente costretta a misurarsi col problema delle autonomie locali.
Occorreva costruire un contenitore normativo abbastanza robusto e rigido per trattenere una materia ancora fluida e attraversata da mille spinte centrifughe, se non apertamente separatiste. La piaga del brigantaggio meridionale che al grido di viva Maria e viva i Borboni, aizzava le campagne in senso antisabaudo mescolando rivolta sociale e pietà religiosa, fu una spina insidiosa, tenace e di difficilissima rimozione. Ma il paese andava pur modernizzato e la ‘modernità, altro volto e nome dell’unificazione, fu anche condotta in punta di baionetta, con durissime repressioni su cui i manuali scolastici hanno steso un velo di comprensibili reticenze minimizzanti. Chi ha visto ‘Bronte’, discusso film di Vancini del 1971 sui fatti accaduti cent’anni prima in un paesino siciliano per mano dei garibaldini di Nino Bixio, sa di cosa stiamo parlando.
Se costruire uno stato come macchina amministrativa fu impervio, costruirlo e stabilmente radicarlo nell’immaginario collettivo lo fu anche di più. Per questo nel 1878, spentasi con Vittorio Emanuele II la figura di più forte pregnanza simbolica del giovane stato, si decise che un imponente complesso monumentale nel cuore di Roma avrebbe celebrato l’indissolubile vincolo fra l’Italia e i Savoia. Bello o brutto che sia, per i romani è familiarmente ‘la macchina da scrivere’, il Vittoriano inaugurato nel 1911 serviva appunto a fare quel che le più antiche monarchie europee avevano fatto da secoli: fornire lo stato di un proprio linguaggio estetico e l’unità nazionale di un adeguato mito fondante. La strada della conoscenza reciproca fra italiani e della costruzione di un comune sapere condiviso ebbe poi i suoi tempi, ritmi e strumenti e, con buona pace dell’800, il ruolo veramente decisivo fu giocato molto più tardi dalla tv, sovrana artefice di unità linguistica. Ma ad ogni passo, in un Paese carico d’anni e di storia come il nostro, c’è ancora un ‘vissuto’ che può decidere di rompere la crosta del passato e, a dispetto di quel famoso 1861, riaffiorare come un fiume carsico indifferente alle periodizzazioni ufficiali della storia. E’ un problema? No, è una sfida. Una marcia in più senza la quale le culture politiche e l’identità nazionale stessa non disporrebbero di un patrimonio collettivo tanto incisivo da sottrarsi a una dissoluzione senza residui: le fiere autonomie civiche del medioevo comunale, il respiro cosmopolita delle città stato come Firenze, il genio levantino e mercantile delle repubbliche marinare, la potenza ideale dello scontro fra idea guelfa e ghibellina che suggerì alla nascente Democrazia cristiana il vincente messaggio subliminale dello scudo crociato. Persino i perdenti del Risorgimento, i federalisti come Cattaneo e Mazzini, decenni più tardi riemersero con la forza di un progetto che rompeva le catene del passato in cui era apparentemente relegato e diventava orizzonte del futuro.
Questo è la storia: un costruire nel costruito con radici che liberamente pescano in profondità insospettate. E dunque? E dunque, viva il 17 marzo del 1861, preziosa tappa di un’Italia che, compiuta e incompiuta, è, ancora e sempre, in cammino.