Pilotata da esperti in comunicazione, condizionata dai sondaggi, influenzata dai social media manager, guidata da leader di seconda fascia, la campagna elettorale si è rivelata noiosa.
Dimenticata la Politica, ripescata l’ideologia, affossati gli ideali, la sfida è risultata irritante.
Assente l’entusiasmo che la conquista di Roma esige e merita, la competizione è apparsa priva di anima. Deprimente.
Costruite con la ferrea e spietata logica della fedeltà ai capibastone di partito, zeppe di candidati bolsi, anemici, anoressici e incarogniti per la posizione nella griglia di partenza, le liste non hanno scaldato i cuori. Negata la possibilità agli elettori di esprimere le preferenze, è stata penalizzata la rappresentatività dei territori e disincentivato l’impegno dei candidati locali, poco motivati a ricercare il consenso e a correre pancia a terra ai quattro angoli del loro feudo per acquisire proseliti.
Ridotta in una meccanica caccia al voto con polveri bagnate, la gara, in alcune circostanze, è scaduta in un imbarazzante e autolesionistico tiro al bersaglio ai propri organi riproduttivi. Secondo aruspici, cartomanti, maghi e oracoli dell’algoritmo, il minestrone insipido e indigesto servito agli elettori non porterà una folla ai seggi.
Se così fosse, il 25 settembre sarà ricordato per l’Armageddon della democrazia italiana, affluenza ai minimi storici e urne vuote.
Il pericolo dell’apocalisse può essere evitato con la consapevolezza che il voto è uno degli strumenti base del sistema democratico e utilizzarlo diventa quasi un obbligo. Poco importa se con il naso tappato o libero. O se l’entrata in cabina provoca crisi respiratorie: un aerosol balsamico prima di recarsi al seggio non è vietato. Votare è un diritto. Esercitarlo è un dovere civico. E’ giusto sottolinearlo. Il teatrino elettorale ha alimentato scetticismo, abulia e disincanto.
Ha esasperato populismo e antipolitica e dato la stura alle litanie dei «Sono tutti uguali», «Non me ne frega un cazzo», «Questa volta non vado a votare», «Mi hanno rotto i coglioni».
Sintomi di un organismo in crisi e prodromi di una malattia più grave, la disaffezione al voto e la sfiducia nei rappresentanti istituzionali avvertono che la democrazia in Italia non è in salute. Non è in coma, ma è in cammino per arrivarci. «È più facile dominare chi non crede in niente: questo è il modo più sicuro per conquistare il potere» (Il cane Gmork ne La storia infinita) .
È stata la campagna elettorale di muscoli esibiti da pugili gracili, di supereroi incartapecoriti e di mummie imbalsamate. Di ex celoduristi per antonomasia, ora affetti da disfunzione erettile. Di professori adeguati per le aule universitarie, ma inadatti per l’arena della politica. Non è facile ammetterlo, ma l’obiettività lo impone: è stata la campagna elettorale caratterizzata da una donna minuta con la grinta di Rocky.
Per gli avversari, è stata l’ossessiva ricerca di un gene anomalo nel suo Dna per mandarla in fuori gioco, sforzo sprecato da mezze cartucce ondivaghe e incapaci di formare un drappello di Apollo Creed pronto ad affrontare l’antagonista e confrontarsi con lei.
Gli intellettuali sono utili, ma per vincere occorrono legionari disposti a combattere e comandanti all’altezza. Con fighetti e parolai, si perde.
Se il vecchio detto chi è causa del suo mal pianga se stesso è ancora valido e se è vero che molte volte una squadra è forte non per meriti propri, ma per la scarsità del contendente, allora chi grida al lupo si faccia un esame di coscienza. Poi si batta tre volte il pugno sul petto e tragga le conseguenze. E impari la lezione.
Avulsa dal sentire dei cittadini, la campagna elettorale ha palesato il contrasto tra l’eccitazione posticcia dei commedianti e la freddezza degli spettatori. Ha impietosamente e tragicamente amplificato la distonia tra il Paese reale e i concorrenti a governarlo. Tra il popolo e la politica.
Pochissimi candidati sarebbero stati degni di citare John Kennedy senza arrossire o essere subissati da fischi: «Non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese». Cosa hanno fatto loro? Gli ultimi mohicani, relegati nelle riserve dei partiti minori, apprezzabili per coerenza e impegno, sono l’eccezione che conferma la regola.
Non modificano il giudizio su una classe politica improvvisata e inadeguata e non la salvano dalla bocciatura, ma la loro presenza in Parlamento sarebbe auspicabile.
Speranza e cambiamento hanno radici nell’utopia. I sognatori non sono l’antidoto al disfacimento della politica. Sono un brodino caldo. Forse neppure quello, ancora meno. Ma nel silenzio cosmico una goccia fa rumore.
Poi c’è il terzo polo, che comunque è anomalo. I poli sono due. Nord e sud. Positivo e negativo. Zenit e nadir. Il terzo è sempre un incomodo e non risolve i problemi. Tutt’al più li maschera.
Infine c’è una formazione data per dispersa. Missing in action. Ma sembra che non sia così. Si racconta che sia viva e vegeta. I soloni che con disprezzo avevano recitato prima il De profundis funebre e poi il tedeum di ringraziamento, adesso tremano. Il mitico «Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco nel sacco» di Giovanni Trapattoni non è ancora scaduto.
Infine spacciare per coalizioni coerenti, coese e credibili dei cartelli elettorali eterogenei tenuti insieme con filo di ferro arrugginito e destinato a rompersi il giorno successivo l’apertura delle urne non è stato un buon viatico per la credibilità dei contendenti.
E allora che fare? Chi votare?
Semplice. Vedere un film con Cetto La Qualunque. Ricordare una delle sue massime «Sono anni che gli italiani si bevono qualsiasi minchiata, e noi siamo la minchiata giusta al momento giusto». Poi recarsi al seggio. In cabina non turarsi il naso. Smentire Cetto La Qualunque e non bere la minchiata del voto utile. Mettere la croce sul simbolo che gode della propria fiducia senza esitazioni. Non è mai un voto perso. Uscire e ripetere il tormentino di Totò: «Vota Antonio, vota Antonio». Ridere sereni.
Lunedì sarà un altro giorno. L’Italia sarà la stessa. Tutti avranno vinto. Inizierà la spartizione dei pani e dei pesci. E chissà che qualche imprevisto non rovini la festa.
Il destino non fa spoiler, la sorpresa è assicurata.
Antonio Grassi
Una risposta
La campagna elettorale è stata poverissima e nessun candidato ha convinto: aggressività, attacchi di carattere personale, mancanza di programmi esplicitati, temi importanti trattati in modo marginale. Che ne sarà di noi? Tantissimi si vantano quasi della scelta del non voto, salvo poi lamentarsi del reddito di cittadinanza, del carobollette, della spesa pubblica alle stelle, del debito che lasceremo ai posteri insieme al pianeta devastato. E così via. Abbiamo visto di tutto, dal saltimbanco che fa spettacolo, a quello che scrive il programma per un partito e poi si mette in proprio, al leader bollito che sicuramente ha avuto una parte consistente nel portarci sul baratro, a quello che dichiara di aver cambiato idea su Putin, a chi rivendica la paternità del pnrr prima di aver distrutto il governo, a quella che ‘adesso arrivo io’. Ma il qualunquismo di quelli che davanti a una scelta quasi impossibile decidono che dall’alto della loro sfiducia totale non concedono il loro voto è degna dello spettacolo immondo della nostra classe politica.