100 giorni alla maturità. Generazione post covid e riti collettivi

16 Marzo 2023

Da tempo sociologi e antropologi denunciano il crescente individualismo della società neoliberale e si interrogano sull’assenza di rituali collettivi e sulle conseguenze di questa assenza in una società sempre più secolarizzata.

In particolare, la mancanza di riti di passaggio, in grado di accompagnare i giovani nella transizione dall’adolescenza all’età adulta, per alcuni analisti avrebbe lasciato le nuove generazioni in solitudine, spingendole alla ricerca di “marchi corporali” (come piercing, tatuaggi), di comportamenti pericolosi o atti autolesionistici, con i quali, in mancanza di un adeguato supporto sociale, mettersi prova. Vale a dire: in assenza di riti collettivi, ognuno si crea il proprio rito di passaggio all’età adulta fai da te.

Per questo mi sembra significativa e degna di interesse la celebrazione dei 100 giorni,  che in queste ore anima le classi delle superiori e riempie i profili Instagram e tik tok: studenti e studentesse di quinta superiore il 13 marzo hanno festeggiato  – in modo diverso, in base alle consuetudini locali, in tutta Italia –  l’avvio dell’ultima fase del loro percorso di studi e l’avvicinarsi della prova che ancora nell’immaginario sociale rappresenta l’ingresso in una nuova  “maturità”.

Con questo nuovo rituale i giovani ci dicono che il loro rito  di passaggio – l’esame di stato –  non è solo individuale e prestazionale (la mia prova, il mio voto), ma è anche collettivo, vuole essere collettivo:  desiderano viverlo insieme e raccontarlo attraverso gli strumenti comunicativi che caratterizzano la loro generazione.

La celebrazione dei cento giorni è davvero una nuova forma di ritualità, gioiosa, nata dal basso, che, spogliata dagli aspetti commerciali, esprime molti significati, che sta a noi adulti decifrare.

Innanzitutto, questo rituale permette agli studenti  di prolungare il  momento del congedo dalla scuola, giorno dopo giorno (100, 99, 98…), di viverlo a piccole dosi, perché forse esperirlo tutto in una volta sarebbe troppo faticoso: esprime l’ambivalenza tra il desiderio di andare e la paura di andare, tra i vincoli e la progettualità.

Sappiamo, infatti, che ogni distacco è sempre doloroso; ebbene i 100 giorni scritti sul muro della classe oggettivano ed esplicitano questa difficoltà. Si sta avvicinando la prova, la vedo avvicinarsi a poco a poco, la controllo, l’affronterò e sarò pronto per andare. In questo processo i giovani chiedono di non essere lasciati soli.

Ma il rituale dice ai docenti che anche il loro tempo, il tempo della scuola, sta inesorabilmente per scadere e li interroga sul significato e sulla qualità del tempo trascorso insieme. Prof, noi tra 100 giorni ce ne andiamo. Che cosa porteremo con noi di questi cinque anni? Che eredità ci lasciate? E, poi, voi che cosa farete dopo di noi?

Chi insegna infatti sa che ogni ciclo che si chiude porta con sé un carico di bilanci e di responsabilità. Forse troppo pesante per trovarselo tutto l’ultimo giorno sulla cattedra. Meglio diluirlo in 100 giorni. E  i giovani sembrano, sapientemente, intuire questa difficoltà.

Infine la celebrazione dei cento giorni ci ricorda che, come in tutte le fasi liminali, i giovani si sentono in una condizione di pericolo, insicurezza, paura e chiedono agli adulti un pensiero particolare di cura.  Guardateci, ci stiamo preparando per affrontare la nostra prova! Preoccupatevi per noi, amorevolmente. E poi, lasciateci andare.

 

Angela Biscaldi

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